Idea e ideale
Per capirne il concetto e il significato di utopia, occorre distinguere idea da ideale, differenza che consiste nel fatto che l’ideale è un’idea + energia, e quindi motiva l’azione. Vito Mancuso in “L’utopia di restare umani”, su La Stampa, pubblica questa inedita riflessione sull’utopia per i nostri tempi. Di seguito il testo.
Dico subito, per favorire la chiarezza, che la mia tesi consisterà nel sostenere che il luogo di realizzazione dell’utopia non deve essere ricercato più fuori di noi, come avveniva con le vecchie utopie, bensì dentro di noi, nella nostra interiorità, l’unico luogo dove talora si può intravedere l’isola che non c’è e che nell’immenso mare dell’essere non ci sarà mai. Voi direte: vedere qualcosa che non c’è? Non è follia? Forse, ma di quella follia di cui Erasmo da Rotterdam fece l’elogio e che costituisce precisamente la disposizione della mente chiamata utopia. Utopia letteralmente significa «non luogo».
Per capirne il concetto, occorre distinguere idea da ideale, differenza che consiste nel fatto che l’ideale è un’idea + energia, e quindi motiva l’azione.
Voi potete incontrare chi ha molte idee e nessun ideale: l’ascoltate, l’ammirate, ma rimanete freddi. Viceversa, potete incontrare chi ha idee con valenza ideale e quando l’ascoltate sentite affluire calore vitale e dentro qualcosa si muove.
Ebbene, l’utopia è un ideale, un’idea dotata di energia. Io la definisco «idea emotiva», nel senso letterale del termine emozione, dal latino emoveo, «mettere in moto».
Più precisamente, l’utopia è l’ideale coltivato da chi non si fa bloccare dallo status quo. È chiaro: bisogna guardare in faccia la realtà, tuttavia chi coltiva l’utopia non si rassegna a spegnere la sua luce interiore scambiando per illusione la tensione verso il bene e la giustizia. Anzi, a partire da alcuni giusti in cui ha visto realizzarsi questa tensione, l’utopista sente che la vita vera è quella rispecchiata da queste poche persone luminose, e non quella dell’esistenza grigia dei più. Come dichiarò un giorno Eraclito: «Uno solo vale per me diecimila, se è il migliore» (DK 22 B 49).
L’utopista sa altrettanto bene, però, che il trasferimento di quella luce sulla totalità del reale non è possibile e che quindi il suo ideale non giungerà mai a risplendere completamente in un luogo concreto ma rimarrà sempre «senza luogo», ou topos, utopico; sempre necessariamente «aldilà dell’essere», come indicò Platone, tra i primi e più grandi utopisti.
L’essere non sarà mai la piena realizzazione del bene. E se anche un giorno potesse pervenirvi, il prezzo pagato sarebbe comunque troppo alto, perché nessuna realizzazione storica giustifica il mare di sangue versato dalla natura e dalla storia.
Tuttavia l’utopista sente che il fatto che l’ideale non possa avere piena realizzazione non lo rende un’illusione. Sente che la realtà più vera è data da ciò che non si vede e non si potrà mai vedere, ma di cui egli non può fare a meno. Come scriveva Oscar Wilde: «Una carta geografica che non comprenda l’isola di Utopia non merita nemmeno uno sguardo, perché escluderebbe l’unico paese al quale l’Umanità approda in continuazione» (L’anima dell’uomo sotto il socialismo, in Opere).
C’è qui una perfetta dialettica: l’utopia in quanto non luogo non sarà mai sulla carta geografica del mondo; e tuttavia, se la carta in qualche modo non la comprendesse sarebbe un fallimento, perché tutti gli esseri umani degni di questo nome ricercano quest’isola e quando danno il meglio di sé vi approdano. Il che significa che l’essere umano può essere diverso dal mondo. Il che significa che noi, se coltiviamo l’ideale del bene e della giustizia, siamo più grandi del mondo. Il che significa che la meta di ognuno di noi è oltre il mondo.
Esattamente come scrisse Wittgenstein: «La soluzione dell’enigma della vita nello spazio e nel tempo è aldilà dello spazio del tempo» (Tractatus logico-philosophicus). Ritenere che la nostra vita sia un enigma, che possa avere una soluzione, e che questa però sia solo aldilà dello spazio e del tempo: questa è, genuinamente intesa, l’utopia.
Ma qual è la nuova utopia per l’Occidente? Temo che stiamo vivendo giorni dei quali in futuro si parlerà riprendendo un celebre titolo di Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo. Si legge in quest’opera: «Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione tra realtà e finzione, tra vero e falso, non esiste più». Non riconoscere più la distinzione basilare tra realtà e finzione; scambiare la realtà per fiction e la fiction per la più vera realtà; essere del tutto sconnessi con il reale e del tutto immersi nel virtuale: ecco le condizioni ottimali per il totalitarismo.
Hannah Arendt scrisse anche queste altre parole, oggi di un’attualità sconcertante: «Noi che abbiamo fatto esperienza delle organizzazioni totalitarie di massa possiamo affermare che il loro primo interesse è eliminare qualunque possibilità di solitudine. Non solo le forme secolari di coscienza, ma anche quelle religiose vengono eliminate quando non è più garantito lo stare un po’ soli con se stessi. Un essere umano non può mantenere intatta la propria coscienza se non può mettere in atto il dialogo con se stesso, cioè se perde la possibilità della solitudine, necessaria per ogni forma di pensiero» (Socrate).
Oggi, in Occidente, anche se non ci sono più organizzazioni totalitarie di massa, la coscienza corre un grande pericolo perché è minacciata nella condizione necessaria del suo esercizio, cioè la solitudine in quanto raccoglimento e silenzio interiore. Senza silenzio interiore, nessun ascolto reale; senza ascolto, nessun pensiero creativo; senza pensiero creativo, nessuna coscienza; e senza coscienza è la fine dell’umanità. È solo grazie al silenzio interiore che la mente genera coscienza e umanità, ma oggi è proprio il silenzio interiore a essere in pericolo.
In queste condizioni qual è la nuova utopia per l’Occidente? La nuova utopia è minimale, il suo nome è antico, si chiama umanità. Umanità ha due significati assai diversi tra loro: l’insieme degli esseri umani, la loro natura più autentica. Io l’assumo nel secondo significato sostenendo che la nostra vera natura si compie come libera intelligenza che sceglie il bene agendo così in modo, appunto, umano.
La nuova utopia consiste nel ritenere che, di fronte all’immenso potere della tecnologia e alla possibilità che essa modifichi il nostro corpo e la nostra mente per una metamorfosi dell’umanità nella direzione di una sconosciuta postumanità, l’umanità, in quanto intelligenza libera e buona, sarà conservata.
Le vecchie utopie miravano a cambiare il mondo, la nuova utopia mira molto più modestamente a non farsi cambiare dal mondo e a custodire l’umanità.
Ricordo le celebri parole di Dante: «Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza». Né bruti né macchine: la nuova minimale utopia crede che rimarremo umani, desiderosi di coltivare la nostra essenza nell’esercizio della conoscenza e della virtù.
È un pensiero realistico? A giudicare da molti segnali no, e infatti è un’utopia, una terra che sulla carta geografica del mondo non c’è. Ma «una carta geografica che non comprenda l’isola di Utopia non merita nemmeno uno sguardo», ed è per questo che invito tutti noi a ragionare con il cuore, coltivando l’idea emotiva di questa nuova, in realtà antichissima, utopia. —
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