Erano 15.000 o 40.000?

L’ottobre del 1980 alla Fiat è stato assunto da molti commentatori come uno spartiacque epocale, da alcuni con metafore di “un prima e dopo Cristo” per quanto riguarda il movimento sindacale, i conflitti e le relazioni industriali. Altri, più realisticamente, hanno visto nella conclusione drammatica della lotta dei 35 giorni alla Fiat, per un verso la sconfitta di un modello sindacale fondato sul ruolo primario dei Consigli di fabbrica, per l’altro un ritorno del protagonismo della rappresentanza istituzionale dei Sindacati, sancita dai Congressi.

Mario Dellacqua, nel 1980 un giovane delegato della Fim-Cisl alla Fiat di Rivalta, nei giorni scorsi ha inviato una lettera al Manifesto, nella quale esponeva un punto di vista diverso da quello presentato su quel quotidiano da Diego Novelli, Marco Revelli, Tiziano Rinaldini, convergenti nel sottolineare quanti fossero per davvero i “marciatori” che a metà ottobre di quell’anno invocavano l’apertura dei cancelli. E’ stata necessaria una certa “pazienza” per vedere pubblicata, mercoledì 28 ottobre, una sintesi adeguata di questa sua lettera, che qui riproduciamo nel testo completo con allegati i tre articoli sopraccitati.

passati alla storia come marcia dei 40 mila

ANCORA SUI 35 GIORNIMario Dellacqua

Come mai Novelli, Revelli e Rinaldini non si stancano di precisare che il 14 ottobre a Torino non erano 40mila, ma 15mila o al massimo 25mila? Nella Torino del 1980 la sinistra degli amministratori, quella del sindacato, quella antagonista erano lacerate da numerose polemiche, ma a 40 anni di distanza – e non è un caso – si trovano unanimi nel rimuovere un dato scomodo: la sconfitta nacque anche dal fatto che anche tutte insieme non erano più rappresentative della maggioranza degli operai. I dirigenti sindacali vennero a indorarci la pillola e impiegarono 15 anni a riconoscere che quella fu una sconfitta al termine di una stagione di avanzate sociali. Bruno Trentin scrisse che “ogni accordo esiste per come è vissuto dalla gente. E se l’accordo è vissuto come una sconfitta, anche se è stato approvato da un’assemblea, diventa due volte una sconfitta”.

Franco Bentivogli vide che “c’era una realtà umana che aveva percepito in modo drammatico il destino che la attendeva, e non poteva cantare vittoria…un mondo gli crollava addosso”. Già, ma da dove veniva quella sconfitta? I “duemila polacchi” – come li definì Salvatore Tropea – che resistevano ai cancelli furono orgogliosamente liberi di non piegare il loro pensiero ai comandi aziendali, ma rimasero prigionieri di una coerenza che impedì loro di riconoscere che non rappresentavano la maggioranza dei lavoratori. Anzi, da loro si erano progressivamente isolati. Ricordo la vergogna che provammo quando vedemmo arrivare i delegati delle fabbriche emiliano-romagnole chiamati a irrobustire presidi sempre più deboli perché sguarniti di operai e di delegati piemontesi. L’indebolimento della rappresentatività dei Consigli aveva origine in una loro crescente burocratizzazione.  I delegati  “sempre in permesso sindacale” si erano trasformati in un ceto politico indipendente che li faceva assomigliare troppo alle vecchie Commissioni Interne: avevano perso la capacità di dialogo e di unità da cui erano nati tanti contratti che noi gruppettari chiamavamo contratti bidone o giù di lì. Compromessi, cedimenti, mediazioni al ribasso eccetera. Ci restavano gli sguardi ringhiosi ai picchetti, ma non ci chiedevamo quale solidarietà o comprensione potevamo ottenere dai torinesi che ai blocchi stradali dovevano fare un giro più lungo per andare al lavoro, a scuola, in ospedale, al supermercato o in palestra.

Certo che poteva andare a finire diversamente. Il giorno dopo l’accordo si poteva opporre il voto contrario delle assemblee all’intervento delle forze dell’ordine per rimuovere i presidi manu militari. Ne sarebbe nata una giornata memorabile di scontri, botte, arresti, sangue e forse peggio. Ma non una nuova corso Traiano, perché chi era partito da casa aveva messo il baracchino nella borsa. Era finita. Era finita. Mario Dellacqua

In allegato gli articoli di Diego Novelli, Marco Revelli e Tiziano Rinaldini e altri correlati

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