La lettura di un articolo o di un libro di Joseph Stiglitz (nel nostro caso Bancarotta) è sempre utile e stimolante. L’autore, conosciuto e letto in tutto il mondo, ha il dono di amalgamare nei problemi e nei processi che affronta la riflessione teorica con la quotidianità concreta delle conseguenze economiche e sociali. La sintesi offerta si avvale, inoltre, di una scrittura agile, di una scorrevole lettura, comprensibile ed esaustiva per la notevole mole di note e di dati che corredano i suoi ragionamenti e le sue analisi e che consentono di validare quanto affermato e di legare l’articolazione delle argomentazioni con una tale offerta di citazioni e di elementi di prova da tranquillizzare ed agevolare il lettore.
L’argomento del libro è il suo titolo. Egli scrive dell’ultima crisi, della sua origine, delle sue cause e dei suoi effetti. Dalla comparsa della crisi del 2008 sono apparsi migliaia di articoli e di libri che hanno affrontato l’argomento, ma, ripeto, pochi hanno la chiarezza espositiva di Stiglitz. Tralasciando l’ultima parte nella quale vengono offerte ipotesi per il futuro sulle quali ci si può esercitare avendo, però, sempre presente che queste esposizioni contengono frammenti di utopia, è soprattutto la prima parte che va letta e meditata.
Stiglitz, all’interno di una ferrea logica causa-effetto, evidenzia come un’attenuazione, una caduta della domanda aggregata frutto sia di scelte economiche, di decisioni Fed, ma anche in parte del naturale evolversi del ciclo economico, sia stata amplificata da una crisi finanziaria senza precedenti. Si è formata una stretta connessione tra crisi economica e finanziaria portando la dimensione di entrambe a livelli insostenibili. L’autore chiarisce bene sia la parte economica della crisi sia i suoi aspetti finanziari evidenziando ed analizzando come prodotti finanziari che, nella loro origine, erano stati creati con l’intenzione di proteggere dal rischio siano stati, invece, utilizzati con l’intento speculativo anche per l’incapacità o complicità degli organi di vigilanza, i cosiddetti regolatori che avrebbero dovuto, in un mercato che si voleva rendere sempre più libero e meno vincolato, dotarlo di regole e verificarne la realizzazione e l’attuazione. A questo proposito è doveroso aggiungere, a titolo esplicativo, l’impossibilità per i regolatori di intervenire in molti casi a causa di una normativa restrittiva tesa a limitarne fortemente il ruolo.
La crisi economica, rendendo impossibile onorare i debiti sottostanti, ha trascinato con sé le grandi istituzioni finanziarie obbligando i governi ad intervenire per salvare le medesime (così grandi da non poter fallire) il cui fallimento avrebbe avuto un costo sociale inaccettabile. In questo modo i governi hanno minato la loro stabilità economica costringendo tutta la popolazione a fare sacrifici ed a sopportare i costi del risanamento delle istituzioni finanziarie.
Esiste, tuttavia, come sottolineato in un articolo apparso sul Financial Times il 20 Febbraio 2011, un’altra interpretazione della crisi finanziaria che non si basa sulla dettagliata ricerca delle relazioni causa-effetto discusse da Stiglitz, ma si basa sull’osservazione del sistema finanziario nel suo complesso.
Tutto parte dalla seguente questione: le grandi istituzioni finanziarie hanno davvero meno probabilità di fallire? La scuola economico-finanziaria tradizionale basata sul concetto di diversificazione dice di si. L’assunto fondamentale è che aumentando le dimensioni del bilancio coprendo diverse tipologie di asset, i rischi del portafoglio tenderanno, in media, ad annullarsi vicendevolmente rendendo l’istituto, di fatto, meno rischioso.
I sistemi complessi che si trovano in natura (ma anche in finanza) ci raccontano una storia diversa. Accumulare rischi non provoca cancellazioni di sorta, ma effetti domino. Più grande e complesso è un sistema, più fragile sarà la sua struttura e più alto il rischio di fallimento. Questo succede perché dimensione e complessità’ aumentano le probabilità’ dell’effetto domino e di contaminazione.
La teoria dei sistemi complessi ha l’evoluzione dalla sua parte e ci aiuta non solo a capire perché un sistema complesso come una foresta pluviale sia più’ fragile di uno molto più semplice come un deserto, ma, soprattutto, ci agevola nella comprensione delle ragioni dei disastri finanziari di colossi come RBS, AIG e Citibank.
Negli anni precedenti la crisi finanziaria la ricerca della diversificazione ha portato le banche ad entrare negli stessi business creando, tra loro, una fortissima correlazione. La diversificazione all’interno del portafoglio di ogni singolo istituto ha creato una mancanza di diversità’ nel sistema finanziario. Questa carenza di diversità’ ha contribuito in maniera determinante ad indebolire il sistema finanziario mondiale (che a fine 2007 era costituito principalmente da colossi, tutti diversificati al loro interno, ma tutti uguali) causandone il collasso.
Ritornando a Stiglitz, egli spiega molto bene come questa crisi sia stata anche fortemente alimentata dal disastro etico nel quale stiamo velocemente precipitando. Va segnalata in primis, l’assenza di una visione e di una progettualità a medio termine da parte delle banche, ma il loro limitarsi soltanto al breve al fine di raggiungere subito i massimi profitti. Infine, va sottolineata l’esponenziale crescita delle disuguaglianze, la totale insufficienza non solo delle politiche redistributive, ma anche la presenza di politiche distributive sempre più inique.
Del resto in una fase di stagnazione, di mancata crescita del PIL, è sempre più palese l’assenza di equità e di sostenibilità, intendendo con quest’ultima parola la dotazione di capitale da lasciare alle future generazioni.
A tal fine sento il dovere di consigliare il libro di Revelli “Poveri, noi” che fotografa la drammatica situazione sociale del nostro Paese.
Sindacalmente
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