Io, anarchico libertario…
Maurizio Maggiani in “Io, anarchico libertario vi dico: la vera lotta non è mai violenta” su La Stampa del 27 febbraio, espone il suo pensiero sull’anarchia e sulla sua militanza giovanile. Ha scritto libri ricendo ambiti premi, tra questi quello per il romanzo “Il pettirosso coraggioso. L’anarchia ha una grande varietà del simbolo base con la A dentro la O. Molto diversi i canti e anche le strategie. La testimonianza descritta da Maggiani è in aperta polemica verso chi si fregia con una certa leggerezza e arbitrarietà del simbolo e dei valori originari dell’anarchia. Di seguito il suo articolo.
Eppur la nostra idea è solo idea d’amor…..
Eh, sì, sono uno di quelli lì. Difficile oggi a dirlo, mai stato così difficile, ma eccomi qua, io sono un anarchico, un libertario, e se non bastasse, persino un mazziniano. Sono nato nell’enclave del sovversivismo apuano, cresciuto tra gente affetta da una sorta di anarchismo genetico, discendente da un popolo che resistette due secoli alle legioni di Roma senza alcun motivo valido – Roma offriva il meglio, ius e lex, libertà di culto, cultura eccelsa, gabinetti pubblici, a chi ne accettava il dominio sulla storia – ma nella folle convinzione che l’unico bene non cedibile era la facoltà sul proprio destino.
Del resto non avevano nient’altro da difendere, Incrocio tra uomini e lupi, scriveva Strabone, senza niente da offrire come bottino di guerra. E questo è rimasto, e allora mio nonno, contadino semianalfabeta con non più di una manciata di parole in bocca, mi spiegò l’anarchia così, l’anarchia a vo dir che a san tuti uguali no perché a san tuti servi, ma perché a san tuti signori.
La signorilità dei miserabili, dei vinti, degli oppressi, degli irredenti che non si consegnano al potere della storia, la signorilità di Don Quijote. E così, ero ancora un ragazzo, quando ho chiesto cosa fosse l’anarchia al più eminente tra gli anarchici del paese, detto il Bakunin, combattente nella brigata internazionale in Spagna, eroe della resistenza, tutto quello che ebbe da dirmi fu, l’anarchia, né ‘gno, an se po’ dire. Qualcosa che ha a che fare con il dio di Mosè, Ehyeh asher ehyeh, io sono colui che sarò; chissà, forse è per questo che don Giussani ebbe a scrivere che l’anarchico è il più vicino a Dio.
Ci ho messo un bel po’ a capirlo, a farmi una ragione di un’idea che prefigura un’altra storia da questa, e un’altra umanità, non solo la futura, ma la nuova umanità. Il vecchio Bakunin non l’avrebbe vista, né io la vedrò, ma la sua e la mia signorilità sono mattoni che si aggiungono ad infiniti altri nella sua costruzione, e questo è il nostro orgoglio, l’irriducibile amore. E la nostra follia, benigna follia, perché la u di utopia può essere in greco sia ou che eu, e quindi il luogo che non esiste e il luogo buono.
Per questo mi ripugnano e provo infinita vergogna per i ladri che si sono impadroniti del nome santo d’Anarchia per farne un’informale federazione di dediti alla delinquenza che non mi riesce di immaginarla politica.
Tanto per essere chiari, ho la serena certezza che applicare il regime 41 bis a Alfredo Cospito, uno tra loro, sia inumano, e questo semplicemente perché allo Stato è proibito vendicarsi, perché la comunità che si riconosce nella convinzione di un’umana giustizia riparatrice non può rispondere all’orrore con l’orrore. Infatti provo orrore per i crimini che quell’uomo ha commesso, orribile e insensata l’idea di rendere giustizia per voi sfruttati per voi lavoratori piazzando bombe alle porte di una caserma o sparare a un dirigente d’azienda.
Per il male che fanno alla pace tra gli oppressi, per l’inetta e stolida idea che si son fatti della guerra agli oppressor, in un giusto processo proletario il movente politico sarebbe considerato un’aggravante piuttosto che un’attenuante; per la disgraziata occasione di Alfredo Cospito, alla tanto agognata giustizia proletaria non sarebbe bastato il 41 bis, ma avrebbe elaborato all’uopo un 41 tris.
Ne ho avuto a basta già quarant’anni fa della proterva «geometrica potenza di fuoco» delle avanguardie armate. Ho pianto ai funerali di Aldo Moro, e non solo e non soprattutto per l’uomo; non so piangere i morti, so solo piangere i vivi, e piangevo per me, piangevo la definitiva sconfitta di tutte le mie attese, di tutto ciò in cui avevo sperato e per cui avevo lottato spendendoci la mia giovinezza, piangevo per ciò che sarebbe venuto a seppellire la promettenza di quegli anni. Come puntualmente è accaduto, persino peggio di come la mia disperata fantasia sapeva immaginare allora; furono due le esecuzioni capitali comminate da Mario Moretti e compagni, quella al presidente della Democrazia Cristiana e quella a un Paese progressivo e speranzoso.
Per fortuna, per grazia di Iddio o per legge della storia, oggi gli informali in armi non sanno che replicare i maestri in allucinata farsa, i loro sparuti sostenitori non sono nuclei ma noduli, non si possono neppure definire come portatori di un ideale pervertito, non ne conoscono le fondamenta di quell’ideale; hanno sentito qualche ballata e gli deve essere così piaciuta da impararne un paio di strofe, qualcuno gli ha parlato di Gaetano Bresci ma si sono ben guardati dal conoscerne davvero la storia.
Sono talmente informali gli informali, che pur negando lo stesso diritto ad esistere dello Stato, ora intavolano a muso duro trattative con lo Stato che non riconoscono intorno all’applicazione delle sue leggi. Alfredo Cospito a costo della sua vita, quelli che si dicono i suoi compagni a costo della vita di Alfredo Cospito. Perché è evidente che gli informali lo vogliono morto, vogliono il suo corpo cadavere per farne il prezioso martire con cui trastullarsi tra una birretta e una cannetta nella sete di vendetta.
Mi piacerebbe a tal proposito sapere quanti tra i vendicatori sono onesti e capaci lavoratori, al netto naturalmente degli agenti infiltrati sotto copertura; c’è questa cosa strana che gli anarchici si sono sempre distinti per la dedizione al lavoro, per l’inappuntabilità del loro portamento, al cospetto della foto segnaletica persino per il lindore del loro abbigliamento anche nell’assoluta miseria.
Gaetano Bresci infatti lo era, ed era molto apprezzato per la sua arte di setaiolo dai sui compagni di lavoro e persino dai padroni del suo lavoro. Se ne tornò dall’America in Italia per vendicare le operaie e gli operai in sciopero per il pane nel fosco fin del secolo morente XIX, ammazzati dai cannoni del generale Bava Beccaris su ordine diretto del Re Buono Umberto I. Ci riuscì a vendicarsi con tre colpi di revolver, non tentò di fuggire, ma si consegnò, perché questa era la regola dei tirannicidi in quel tempo di furori, testa per testa. Fu chiuso e incatenato in una tana del carcere di Ventotene in attesa di venire ammazzato nel modo più doloroso possibile dai suoi custodi. E questa fu la vendetta dei Savoia e dello Stato a loro ossequiente, che non si fermò finché non distrusse la vita dei membri della famiglia di Bresci fino al terzo grado.
Il gesto dell’ultimo dei regicidi ha lasciato una lezione definitiva alle mille e mille facce ischeletrite che urlan l’odio, la fame ed il dolore, al movimento anarchico, ai resistenti alla tirannia in generale.
Non fosse bastata la lezione di Felice Orsini, il mazziniano che cinquant’anni prima aveva attentato al tiranno Napoleone III e fallì uccidendo dodici innocenti, perché se lui inventò l’efficace bomba al fulminato di mercurio, la bomba sferica che da quel momento divenne l’accessorio prediletto dai caricaturisti di anarchici, il giorno prima Napoleone s’era inventato la ancor più efficace vettura corazzata.
La lezione davvero importante lasciata da Bresci è che la vendetta è prima di tutto inutile, è morto il re, viva il re. E il re vivrà in eterno finché potrà sedersi sul suo trono; è il trono, non chi ci sta sopra l’obiettivo, l’obiettivo è il regno e il sistema su cui si fonda. E questa allora è lotta politica non vendetta. Lotta armata sì, ma di intelligenza, conoscenza, determinazione, coraggio, perseveranza, empatia per la vita e rifiuto della morte, è il regno che semina morte, i giusti seminano vita. Amici che restate le verità sociali da forti propagate, è questa la vendetta che noi vi domandiam.
Un mio amico, un uomo di infinita dignità e dolcezza, ha ricevuto pochi anni or sono una lettera dagli informali federati siglati Fai. Quell’uomo vive da cinquant’anni con ancora in corpo una delle pallottole con cui le Br vollero punire un grande dirigente d’azienda iscritto al Partito Comunista. Nella lettera si legge tra l’altro, «… al vecchio zoppo non è bastato l’attentato scorso quando era padrone dell’… questa volta non avrà modo di rialzarsi né lui né l’unico impotente uomo armato che l’accompagna sempre…» (segue modello e numero di targa dell’automobile). Ecco, questo è l’alto pensiero, questa la tempra morale dei ladri d’anarchia. —
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!