In tempi di divisione sindacale, di debolezza politica delle opposizioni al più nefando governo del dopoguerra italiano, di manifestazioni sindacali che misurano la loro presunta forza in affollate piazze, ma quasi impotenti ad affrontare la crescente situazione di degrado sociale, precariato, e crescente disoccupazione per mancanza di unità e strategie idonee ad affrontare la situazione le dichiarazioni di Bersani, segretario del PD, appaiono sensibilmente sagge e preoccupate per il crescente divario fra l’urgenza di interrompere l’azione distruttiva del governo e la necessaria forza unitaria per abbatterlo.
La decisione di non partecipare alla manifestazione della Fiom, accanto a dirigenti dello stesso partito, a personalità della cultura, a lavoratori e studenti, dichiarando che necessita un progetto e non dover scegliere o condannare Cisl e Uil, non è indifferenza alle fondate ragioni che stanno alla base della protesta, ma è coerente e coraggiosa indipendenza, giustificata non solo dalla attuale divisione dei sindacati, ma anche dalla preoccupazione per il partito che attraversa una fase delicata in cui che può frantumarsi una storica aggregazione di ex comunisti ed ex democristiani.
Rifiuta, Bersani, la definizioni di traditori di quei sindacati definiti tali in certi cartelli presenti alla manifestazione di sabato scorso; sa bene che sarà ancora con questi che si dovrà ricercare l’unità, per essere più forti nonostante cedimenti e ambiguità nei confronti di esponenti del governo da parte di dirigenti di Cisl e Uil, è con loro che andranno ricercate nuove ragioni di unità per fronteggiare quei poteri economici che traggono vantaggi dallo stato di debolezza sindacale, de-localizzano il lavoro ricattando i lavoratori con le delocalizzazioni, deindustrializzando il paese avviando una guerra fra poveri.
La crescente e preoccupante divaricazione delle forze sindacale non verrà certo sanata dall’acquisizione di qualche iscritto sottratto agli altri sindacati da parte della Cgil, beneficiando del risentimento dei lavoratori.
In allegato l’intervista di Bersani a "La Repubblica" del 18-10-10
Allegato:
Intervista di Bersani_18-10-10.doc
Personalmente ho molta simpatia per Bersani, per il suo linguaggio chiaro, comprensibile, per le sue competenze, ecc. così come credo sul serio che sia sinceramente motivato rispetto alla divisione sindacale che ad oggi impazza nel nostro paese. Però… mi permetto di dissentire da lui rispetto alla sua non presenza alla manifestazione della FIOM, in quanto lì si trattava di prendere parte nei confronti di un attacco mai così duro (dalla fine della guerra) nei confronti dei lavoratori da parte di Marchionne e di Berlusconi. Cosa che in sé motivava e giustificava la presenza sua e del suo partito, detto che c’è chi (pur non essendo un venduto) cade in errore, vedi Bonanni e Angeletti. E purtroppo tra gli iscritti, i simpatizzanti di quelle organizzazioni sindacali non vengono fuori (ancora) le voci critiche. A me pare però che i disastri del governo Berlusconi e l’attacco di Marchionne ai diritti e alla condizione di lavoro sia uguale per tutti. Speriamo in bene.
Non ho mai dato del traditore a nessuno e non mi piace che si adoperino argomenti come questi. Anche a me è simpatico Bersani. prima di dire se ha fatto bene ho male ad andare alla manifestazione della Fiom, credo di dover dire che molte volte questa abitudine di non entrare nel merito dei problemi, perchè "altra cosa sono i partiti e la politica", mi pare un atteggiamento pilatesco di chi se ne lava comunque le mani. E questo non va bene in ogni caso. Devi trovare il modo di dire la tua sul merito. Certo non potrai prendere le decisioni come ai tempi della cinghia di trasmissione. Ma almeno devi darti da fare perchè ci siano regole "esigibili" ed inequivocabili per la rappresentanza e per consentire la decisione degli interessati. Se il PD vuole davvero lavorare per ricomporre l’unità del mondo del lavoro, allora deve presentare, senza se e senza ma una proposta di legge su democrazia e rappresentanza sui luoghi di lavoro. Mi pare che a questo impegno non si possa e non si debba sfuggire. Ciao a tutti. Paolo Franco
Nell’intervista a “Che tempo che fa” del 24.10, l’AD di FIAT ha lanciato una sfida: portare la competitività e produttività italiana al pari dei nostri rivali europei, con l’impegno ad elevare i salari ai livelli di quei paesi. Tutte le prime reazioni a caldo si sono soffermate unicamente sull’osservazione dello stesso Marchionne che senza l’Italia, i profitti di FIAT sarebbero stati più elevati; innescando una polemica sugli aiuti di stato di cui storicamente la FIAT ha (in varie forme) usufruito in passato. Il punto vero è raccogliere la sfida di Marchionne, che sembrerebbe aver abbandonato la scelta autoritaria, quale parametro prevalente su cui fondare la competizione internazionale, di puntare su condizioni salariali e lavorative “cinesi” (decise unilateralmente ed imposte dall’impresa, svincolate da norme nazionali collettive ed uniformi), che se hanno effetto nell’immediato, comunque generano frustrazione e rabbia, che prima o poi sono destinate ad esplodere, rendendo alla lunga ingovernabile la fabbrica. Scelta non solo sbagliata, ma anche miope, perchè ci sarà sempre un paese emergente in grado di offrire manodopera ad un costo sempre minore (oggi Cina e India, domani …?). Il terreno competitivo del futuro sarà sempre più la conoscenza, cioè produzioni di beni e servizi ad alto valore aggiunto, con contenuti di tecnologia, know-how, di creatività, di qualità, sempre in evoluzione e non replicabili altrove, in grado di garantire profitto, reddito e occupazione; questo è il destino di tutti i paesi più industrializzati ed anche dell’Italia. Marchionne finalmente, si è reso conto che le imprese, nonostante il ricorso massiccio ad automazioni e tecnologie informatiche, per fronteggiare le continue sfide competitive del mercato globale, hanno necessità di valorizzare il lavoro umano intelligente e creativo, in dosi sempre più consistenti per il proprio successo; perciò il lavoro resta l’elemento fondamentale nel rapporto impresa–mercato. Il fattore umano è sempre più risorsa strategica e sempre meno appendice delle macchine, in quanto la velocità dei cambiamenti è tale che le imprese richiedono sempre più, responsabilità, impegno, disponibilità, adattabilità, flessibilità; quindi, “consenso ai fini d’impresa”. Il punto è se tale consenso viene passivamente dato o coercitivamente estorto, oppure se, come credo, può rappresentare il tema fondamentale per un nuovo patto post-fordista capace di scambiare qualità del lavoro, rischi, responsabilità, creatività, con la partecipazione dei lavoratori. Sono molteplici i fattori che concorrono alla crescita ed allo sviluppo competitivo, tra cui investimenti ed ammodernamenti tecnologici, modelli organizzativi e capacità dinamiche di risposta alle mutevoli condizioni del mercato, ma rimangono comunque fortemente influenzati dal grado di coinvolgimento (o meglio, “partecipazione”) dei lavoratori nelle fasi del processo produttivo, al fine dell’incremento della produttività e del miglioramento dell’efficienza. La premessa da cui partire è che sia dichiarata in modo esplicito da entrambe le parti (impresa e rappresentanze dei lavoratori), la condivisione degli obiettivi d’impresa, intesi come mantenimento e sviluppo della competitività. Detto a rovescio: l’impresa non competitiva deperisce, le cui conseguenze negative si traducono in cassa integrazione, licenziamenti, chiusura della fabbrica, ecc.; scenari visti tante volte, sopratutto in questi ultimi tempi. Questo non significa acquiescenza ed accettazione passiva di qualsiasi decisione dell’impresa; partecipazione non è sinonimo di subalternità, perché restano intatte le diverse rappresentanze degli interessi, che però, stanno insieme solo in un’impresa competitiva, e possono trovare un punto di equilibrio in un quadro accettato e condiviso di regole del gioco. Quindi, pur mantenendo le funzioni del Contratto Nazionale di tutela retributiva legata all’inflazione e di un quadro normativo di diritti e doveri delle parti, si accetti e si convenga su un sistema di RELAZIONI INDUSTRIALI PARTECIPATIVE fondato sulla reciprocità dei rapporti (riconoscimento dei rispettivi ruoli, pari dignità, correttezza di relazioni, informazioni preventive, assunzioni di responsabilità, ecc., ed anche regolazione di eventuali forme di dissenso). Ciò implica compiere un salto “culturale”, cioè acquisire la consapevolezza di valori e ragioni comuni e condivisi (la solidità competitiva dell’impresa coniugata con la valorizzazione del lavoro e dell’occupazione), che rendano reciprocamente conveniente definire obiettivi di produttività, efficacia ed efficienza perseguibili, negoziando e definendo intese centrate sulla conoscenza, discussione ed implementazione dei piani produttivi e sulla distribuzione dei benefici conseguenti tra lavoro e capitale, in rapporto al contributo dato da ciascuno. Questa è la sfida di fronte al sindacato; anche per uscire dalle polemiche tra chi è più realista/acquiescente e chi più radical-contrario; posizioni che, per quanto opposte, sono entrambe funzionali a lasciare campo libero alle decisioni unilaterali dell’impresa. Non accettare di confrontarsi con la sfida di Marchionne implicherebbe rinunciare a contrattare, evitare di assumersi responsabilità pur di mantenere rendite di posizione, sia pure “vecchie” ed inadatte. La scelta partecipativa è dichiaratamente contrapposta sia al sindacato antagonista, sia al sindacato subordinato; rappresentando invece, l’espressione del “sindacato autonomo soggetto sociale”, che esercita il suo ruolo contrattuale collocando la partecipazione collettiva nella prospettiva di una crescita della produttività e del più generale livello di benessere anche per i lavoratori e l’occupazione. In Germania si sono mantenuti livelli salariali elevati, si è contenuta la disoccupazione e difeso l’occupazione, peraltro con un forte ruolo contrattuale “partecipativo” giocato dall’IG Metall. Parafrasando il Governatore di Bankitalia Draghi: Germania docet? FLAVIO PELLIS – SEGRETARIO GENERALE DI ARES