Crediamo utile pubblicare questo scritto apparso su E&L più di un anno fa , ( più di Francesco che del sottoscritto ). La situazione non è cambiata, anzi peggiorata. Di fronte all’incapacità di dare risposte alla crisi e al crescente malcontento si ricorre , come in passato, al populismo securitario: Sarkozy, Berlusconi, Maroni ne sono i capofila. L’ignoranza delle dimensioni del problema li aiuta.
Non crediamo sia il caso di spiegare ai lettori di questo sito ,che non sia buono ed utile bruciare o demolire le baracche dei rom, (tzigani li chiamano in Romania, da dove viene la maggior parte degli ultimi arrivati); caricarli alla rinfusa su camion e mezzi vari; trasferirli coattivamente da un paese all’altro; fare norme specifiche che li riguardano; nominare commissari speciali e prendere le impronte digitali ai bimbi. Il voto al Parlamento europeo basta ed avanza come commento insieme alle, per fortuna numerose, prese di posizione di intellettuali, artisti, Famiglia Cristiana, Comunità ebraiche, lettere ai giornali di comuni cittadini. Gli tzigani rumeni sono cittadini europei come tutti gli altri rumeni, come tutti noi. Non si possono rinchiudere in appositi Zigeunerlager per la soluzione finale come è stato fatto in passato fecero i nazisti.
Non esiste una caratteristica oggettiva, genetica o culturale, che consenta di mettere tutti gli zingari da una parte e tutti i gagè, o gaggi, come dicono a Torino, – i non zingari – dall’altra. Nei campi regolari di Torino, nei camper, ci sono famiglie con i vestiti tradizionali e famiglie con le ragazze che portano i jeans. Nei campi abusivi di Torino, nelle baracche, l’uno accanto all’altro, ci sono sia rumeni rom, sia rumeni gagè, sia rom non rumeni e anche qualche cittadino italiano non rom. Si può nascere zingaro e morire gaggio. O si può nascere gaggio e vivere sempre con e come gli zingari, come fanno due monache torinesi che, abbandonato l’abito per la gonna a fiori e il fazzoletto, hanno deciso di vivere evangelicamente con questi “ultimi”.
Ci sono matrimoni misti e zingari italiani, ovviamente indistinguibili da un siciliano o da un indiano, che se ne vanno in giro alle manifestazioni con una delle bandiere con la falce e il martello diventate extraparlamentari di recente. C’è almeno una deputata europea tzigana, ungherese, di cui si sono lette in rete le mozioni in questi giorni di tensione e di timore per il passato che non passa o minaccia di tornare. E poi ci sono gli artisti, di cui ci parla spesso Moni Ovadia, gli zingari dei film di Kosturica e anche calciatori famosi che cercano di far dimenticare di avere sangue tzigano nelle vene come Ibraimovic.
Infine, come ci ricorda in un bel saggio (su Reset) il prof. Francesco Broglio, i rom sono tanti in Europa, tra i 9 e 12 milioni, più della popolazione di tanti Stati (Svezia, Austria, Slovenia, ….Montenegro, Kossovo). La più numerosa minoranza etnica nel vecchio continente in cui vivono, nomadi, da molto tempo. Sin dal medioevo vi sono documentazioni scritte del problema “zingaro” che ha attraversato la storia europea fino alla fondazione degli Stati nazionali. Stati nazionali che in modi diversi hanno cercato di venire a capo, quasi sempre con metodi spicci, della “devianza” di una etnia composita, senza riferimenti di suolo ma solo di sangue, con i suoi usi, riti, feste, regole interne. Da qui anche l’instaurarsi di circoli viziosi esclusione –emarginazione –povertà studiati da sociologi ed antropologi.
Bella scoperta! – si dirà. Niente di nuovo.
Qual è il problema allora? Perché parlare dei rom se non per denunciare l’uso politico-populista di un ministro leghista in cerca di “capri espiatori “ ? Perché quanto sta succedendo ai rom è la spia di un problema più generale: il degrado della condizione di molti migranti e degli estremamente poveri in Italia. Non si può separare il comportamento nei confronti degli zingari da quello nei confronti degli immigrati, soprattutto nei confronti dell’ultima ondata, che viene sempre vista come la peggiore, brutta, sporca, cattiva, da coltello.
Stiamo spazzando gli immigrati sotto il tappeto da 25 anni, facendo finta che siano temporanei (una emergenza), in fuga da qualcosa, un costo, non necessari. Gli zingari rappresentano il punto più basso di questo universo, quelli di cui nessuno ha bisogno, i più difficili da collocare, per cultura e storia, nella divisone del lavoro di un paese contemporaneo, in particolare di un paese squilibrato come il nostro. Gli zingari rappresentano, emblematicamente, la fascia di popolazione di cui l’economia non ha bisogno. La tolleranza nei confronti degli immigrati si basa sull’economia, non sui diritti civili. Sono la forma attuale degli anomici – mendicanti, nullatenenti, servi senza mestiere, prostitute, saltimbanchi, attori, eretici, ebrei – che da sempre le classi alte cercano di escludere dalla cittadinanza, quale che sia la loro condizione giuridica formale. Non tutti diventano stelle del circo, o grandi calciatori, o grandi musicisti. Li teniamo in immondezzai e di conseguenza ci lamentiamo perché sono sporchi. Se però la crisi dell’economia reale cominciasse a mordere sul serio, l’equilibrio si romperebbe e ciò che oggi vale per gli zingari varrebbe per tutti.
Bisogna ricordare alcuni fatti. Tutti i governi italiani, di pentapartito, di destra e di sinistra, malgrado i lodevoli sforzi di qualche ministro, hanno adottato nei confronti degli immigrati la stessa politica: tollerare l’irregolarità e regolarizzare di tanto in tanto anziché consentire l’ingresso regolare. Da che c’è l’immigrazione sono entrati regolarmente in Italia qualche decina di migliaia di colf, qualche migliaio di infermiere e, dalla Turco-Napoliatano in poi, i familiari ricongiunti.
Gli altri milioni di immigrati, tre milioni e mezzo di regolari, tra mezzo milione e un milione di irregolari, sono entrati violando la legge. Tutti, anche quelli che ora sono cittadini. Ed, essendo irregolarmente presenti, hanno dovuto alloggiare in baracche, soffitte e vagoni abbandonati, o subaffittare senza contratto da connazionali benevoli o intermediari avidi, italiani e stranieri. Qualcuno ha mendicato e/o rubato, quasi tutti hanno lavorato in nero, per forza, fino a che la catena migratoria, la rete di consanguinei, connazionali, conoscenti, associazioni benevole, non li ha inseriti in qualche attività, in regola, alla prima sanatoria disponibile.
La distinzione che le autorità virtuosamente fanno tra irregolari criminali e regolari lavoratori è una menzogna, una finzione. Tutti quelli che si occupano di immigrazione sono diventati rauchi a furia di ripeterlo.
La condizione di irregolarità è efficacemente perpetuata dallo Stato. Delle 740.000 domande di ingresso presentate a dicembre è stato esaminato, in 5 mesi e mezzo, solo il 6%, meno di 45.000. Ci sono quasi 700.000 persone che nella finzione giuridica sono all’estero, ma che tutti sanno essere presenti e occupate, con un contratto di lavoro, perché altrimenti non avrebbero potuto fare domanda, che non sanno se sono sommersi o salvati. Tutti, per un po’ di tempo, in media due anni e mezzo, all’ingrosso, hanno nascosto i documenti, per non essere incriminati col nome vero, se accusati di qualcosa, e per rendere materialmente impossibile l’espulsione, perché per espellere qualcuno bisogna sapere in quale paese mandarlo.
Essendo i minori protetti dalla legge e da convenzioni internazionali possono a Torino e in Piemonte, non a Milano, frequentare le scuole e passare gli esami anche se non hanno permesso di soggiorno. Permesso che dovrebbero avere per legge, ma che spesso viene concesso in ritardo. Questi ragazzi dichiarano di abitare in una residenza fittizia, per non mettere nei guai i genitori, che ovviamente lavorano, in nero, e presso cui di fatto abitano.
Lo fanno peruviani e marocchini, albanesi e moldavi. Tutti violano le leggi. La legge prevede che lo Stato rinnovi il permesso di soggiorno, se ci sono le condizioni, entro un mese; ma lo Stato viola la legge e ci mette in molte province più di un anno. I criminali veri hanno passaporti e avvocati e non finiscono dentro facilmente, come non ci finiscono facilmente i camorristi e i mafiosi cittadini italiani.
E’ la regola, imposta dalla circostanza che degli immigrati c’è assolutamente bisogno per ragioni demografiche, ma siccome inizialmente sono poveri, sporchi, ingombranti e nessuno li vuole per istrada, anche se ne ha bisogno in fabbrica o in casa, non c’è forza politica, dall’estrema destra all’estrema sinistra, disposta a fissare delle cifre realistiche per gli ingressi legali, che finiscono sempre per essere più basse di quella degli irregolarmente presenti e occupati in nero che riescono a farsi fare un contratto. Perciò il decreto flussi regolarizza una parte dei già presenti che passano dal nero al contratto regolare. Tutti i nuovi entrano irregolarmente, dal nord, non dal mare.
Ce ne vogliono forse 300.000 l’anno. Ne arriva, forse, qualcuno di più.
Gli zingari non differiscono in nulla dagli altri, nella fase di ingresso. Quelli che entrano senza essere definiti rom, perché fuggono da una guerra e sono classificati profughi, col passaporto del paese di provenienza, passano per la trafila di tutti. Quelli che hanno ripreso l’abitudine culturale di muoversi, anziché andare in una soffitta affollata, vanno al campo nomadi. La loro catena migratoria porta ai campi, non alle soffitte; alla mendicità non alla badanza. Chi vuole una badante zingara?
Pesa, nella fase successiva, oltre alle caratteristiche culturali, il fatto che nei paesi di provenienza erano dei paria, il basso del basso. Non hanno ruoli sociali da recuperare, per sé o per i figli. Hanno i loro particolari dialetti, più diversi dalla lingua ufficiale del paese di origine dei dialetti ordinari. I problemi sono la povertà, la mancanza di lavoro, l’ignoranza – nostra di loro e loro di noi.
Gli tzigani, per lo più, sanno poco dei gaggi e i gaggi non sanno assolutamente nulla degli tzigani, al di là della caricatura negativa, e di quella romantica, che possono tranquillamente convivere. Il 52% degli italiani, a cominciare dal presidente della Camera, non ha la minima idea di quanti siano gli zingari (rom e sinti) in Italia. Il 35% la sovrastima. Il 50% crede che nessun rom sia italiano, mentre al contrario la maggior parte lo sono. Il 92% è convinta che lo sfruttamento dei minori sia una caratteristica intrinseca a queste popolazioni e infine la favola “che rubano i bambini” è un vero e proprio stigma ripreso da politici (sempre l’on. Fini in campagna elettorale) e utilizzato nei quartieri di camorra per scatenare pogrom e impegnare in altra direzione le forze dell’ordine. Persino le figure di passaggio – tzigani che conoscono il mondo dei gaggi, gaggi che hanno sposato tzigane – sono arroccate in una difesa che sembra d’ufficio e raccontano molto poco. Quelli che, forse, avrebbero cose da dire scrivono poco.
Restano le storie dei tentativi di aiuto dei benevoli, delle “best practises“ per usare un linguaggio tecnocratico, dei successi e (tanti) insuccessi, delle fregature, degli insulti che gli tzigani subiscono nei luoghi stessi in cui si dice di volerli aiutare, delle adolescenti al carcere minorile, delle morti di bambini per degrado ambientale ed incuria.
Ciò che distingueva gli zingari dai contadini stanziali nel mondo antico, 50, 100 anni fa, nelle campagne italiane, erano davvero la mobilità e i mestieri, non la ricchezza. I contadini stavano fermi, zappavano la terra, per sé ed i padroni, filavano, maciullavano la canapa, tessevano, facevano canestri. Gli zingari si muovevano con i carri a cavalli, vendevano cavalli, stagnavano e riparavano recipienti di rame, leggevano la mano, qualche volta portavano in giro un circo, minimo e povero, montavano una giostra. Facevano parte del paesaggio. Uno dei capolavori della letteratura mondiale, “Cent’anni di solitudine“, narra nelle prime pagine l’incontro di un bambino con gli zingari. Le grandi famiglie circensi italiane sono zingare.
Certo gli zingari erano fuori della comunità cristiana, del gregge, della parrocchia. Avevano intorno un’aura di paganesimo, persino di magia. Il prete non li trattava bene, anche se meglio dei Testimoni di Geova, venuti da fuori e portatori di una teologia diversa, ben più pericolosa di un vuoto di teologia.
Esiste naturalmente una letteratura, anche in italiano, sugli zingari, sui loro costumi, musica, feste, riti. Fatalmente riguarda una struttura. Somiglia, forse, agli zingari come erano, come potrebbero essere se avessero spazio.
L’idea di parecchi che si sono occupati di loro, fondata su poco più di una serie di fallimenti, è che provare ad usare la letteratura per capire gli zingari baraccati e sgomberati, gli zingari come sono, dopo le camere a gas, il nazionalcomunismo nei paesi dell’Est, la fuga in occidente, il dominio dei violenti, in mancanza di leggi statuali e di lealtà tradizionali, è come voler usare Eduardo de Filippo per capire Scampia. Ci sarebbe bisogno di una storia sociale degli zingari, o di una antropologia storica, non di una antropologia senza tempo. E’ probabile che il trauma maggiore gli zingari l’abbiano subito con la fine dei mestieri tradizionali e, nell’Europa orientale, con il nazismo prima e il nazionalcomunismo poi, che hanno subìto per mezzo secolo ed ha voluto dire bandi, esclusioni, privazioni di diritti.
La Romania, l’Albania, l’Ungheria, la Cecoslovacchia e anche la Jugoslavia, comuniste, non tolleravano l’autonomia degli zingari, la loro libertà, meno che mai la loro mobilità, e ovviamente impedivano anche a loro, come a tutti gli altri, di passare le frontiere degli Stati, ed anche quelle amministrative interne, per cui occorrevano permessi.
Tutti erano stati sedentarizzati, vivevano in paesi o quartieri ghetto, di nuova costruzione, o in case degradate. Dovevano, obbligatoriamente, lavorare, pena condanne pesanti. Dovevano imparare la lingua nazionale, come tutti. In Romania era proibito anche l’ungherese, nella zona ungarofona, la Transilvania. Il tedesco, nella zona cosiddetta sassone, germanofona, poteva essere studiato come lingua straniera.
C’erano differenze. In Albania le zingare erano spazzine, una casta. Il crollo della raccolta dei rifiuti a Tirana, che fa sembrare Napoli un paradiso, oltre che alla esplosione della popolazione della città, sarà dovuta anche alla partenza degli zingari. In Romania c’era forse un parziale rispetto dei mestieri tradizionali. In Jugoslavia c’erano mutui agevolati per favorire la costruzione o l’acquisto di una casa stabile. A Serajevo vi è un quartiere rom. Un gruppo di rom kossovari, che è stato ricomposto a Fubine da un prete operaio di Alessandria e che non è stato classificato zingaro, si è più o meno inserito nei mestieri, abita in una casa, chiede i mutui e le agevolazioni jugoslave, che non trova più.
Col crollo dei regimi comunisti e la fine del lavoro obbligatorio, gli tzigani si sono ritrovati completamente fuori sistema. Non c’era lavoro per nessuno; figuriamoci per loro. Molti sono rimasti; molti altri sono partiti e si sono depositati come polvere nelle pieghe del terreno, sotto i ponti, nelle periferie d’Europa. Per Milano esiste un libro, pubblicato dall’Ismu, a cura di Ambrosini e Tosi, che contiene l’etnografia di alcuni campi della periferia locale. Un primo nucleo di una cinquantina di persone si è sistemato in una piega del terreno, un po’ comprato, un po’ occupato, vicino a un deposito di bancali per la frutta, che hanno usato per costruire. Poi si sono moltiplicati fino a 250. Hanno avuto due incendi, forse dolosi. Hanno rapporti di lavoro col mercato. Hanno problemi di igiene e di salute. Sono in origine caramidai, cioè mattonai, e, per estensione, muratori. Tengono pulito l’interno delle case, ma non l’esterno, come in molti posti intorno al Mediterraneo. Aspirano a farsi una casa in muratura, quando potranno. Sono bravi a costruire.
Sono dati essenziali se si vuole intervenire e non far finta di niente. Sapere chi veramente vuole muoversi e chi vuole stabilirsi. Quali sono le parentele, le aspirazioni, i vincoli con gruppi in altri paesi, le lealtà, le gerarchie, le regole. L’ospitalità certo ne è una. E’ partendo da queste conoscenze che è possibile elaborare interventi con qualche possibilità di successo. Casa, lavoro e accettazione di regole, ha scritto Don Colmegna della Casa della carità a Milano, e progetti, non solo operazioni estemporanee, basati sulla conoscenza delle persone. Senza di che si continua ad oscillare tra idealizzazione romantica, persecuzione indignata e uso politico della stessa.
*(Francesco Ciafaloni, comitato contro il razzismo di Torino – Toni Ferigo, Istituto Paralleli)
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