La retorica del potere
La parola, la retorica sono mezzi straordinari del potere. I retori nell’antica Grecia e a Roma erano oratori e maestri di eloquenza, esperti nell’arte di parlare in pubblico e persuadere gli ascoltatori. La retorica è tutt’ora utilizzata, a volte anche improvvisando, per richiedere, con domanda diretta o indiretta, facendo riferimento alla storia passata e recente, un assenso o un diniego o comunque una risposta già implicita e dunque con l’esclusione delle discordanti. La comunicazione oggi è spesso accompagnata da immagini selezionate con cura.
Antonio Spadaro, ha pubblicato “Leone e la retorica del potere”, su La Repubblica 18-7-25, commentando un intervento del 2012 dell’allora padre Prevost. Di seguito l’articolo << Di recente Leone ha spronato a valutare le cause dei conflitti, rigettando e smascherando quelle «frutto di simulazioni emotive e di retorica». E così ha toccato il punto nodale dei nostri tempi: sulla scena politica internazionale i confini tra politica, spettacolo e narrazione si sono fatti con il tempo sempre più labili. Le parole di oggi, in realtà, hanno in Prevost una radice profonda.
Era l’ottobre 2012 e si celebrava in Vaticano il Sinodo dei Vescovi. L’allora padre Robert Prevost, priore generale dell’Ordine di sant’Agostino, prese la parola. Fece un intervento robusto con la sua voce mite. Metteva in guardia da un rischio che tocca non solo la Chiesa, ma ogni ambito in cui la parola pubblica riveste un ruolo cruciale: quello di confondere il linguaggio con l’incantamento, la comunicazione con la messinscena, il rito con lo spettacolo.
Diceva: «I Padri della Chiesa offrirono una risposta formidabile alle correnti letterarie e retoriche non cristiane e anticristiane attive nell’Impero Romano». Per lui non si trattava solo di opporsi alle idee del tempo, ma di capirne la grammatica simbolica, le forme narrative. La posta in gioco era (e resta) la capacità di decifrare l’immaginario – religioso, politico, etico – che modella il modo in cui le persone vivono, pensano, decidono.

Quel che rende attuale la lezione di Prevost è che oggi viviamo un nuovo tempo di retoriche dominanti, in cui i leader politici non sono più amministratori della cosa pubblica, ma registi dell’immaginazione collettiva. Non si limitano a proporre programmi, ma mettono in scena visioni del mondo. La politica ha assunto i tratti di una performance nel palcoscenico dell’opinione pubblica. Gli “uomini forti” dei nostri giorni sono performer di un nuovo dramma globale. E non è un fenomeno nuovo. Anche Hitler e Mussolini seppero usare una retorica potente. I loro regimi non si affermarono solo con la violenza fisica, ma grazie a una straordinaria capacità di orchestrare l’immaginario collettivo, mobilitando simboli, miti, estetiche.
In questo senso il riferimento di Prevost ad Agostino è strategico. Parlando delle Confessioni, ricorda come l’immagine delcor inquietum abbia «definito l’immaginario religioso ed etico» dell’Occidente. Non con argomenti, ma con una metafora potente. Agostino – afferma – «definì il modo in cui cristiani e non cristiani riscoprirono l’avventura della conversione religiosa».
Che cos’è una metafora riuscita se non una forma di riconfigurazione dell’esperienza? Una nuova lente per leggere ciò che si vive? Ma c’è un’altra immagine agostiniana, evocata da Prevost, che rivela la posta in gioco. Nella Città di Dio, Agostino racconta l’incontro tra Alessandro Magno e un pirata catturato. Il re gli chiede: con quale audacia osi infestare il mare? E il pirata: “Con la stessa audacia con cui tu infesti la terra; io con una piccola nave sono chiamato ladro; tu con una grande flotta imperatore”. Agostino non solo capovolge il punto di vista sul potere, ma smaschera il principio su cui si fonda: la retorica della legittimazione. La storia non premia i giusti, ma i vincitori. E i vincitori riscrivono la morale a misura delle proprie imprese. Prevost qui è lucidissimo e afferma che oggi il meccanismo è il medesimo. Ecco perché scrive: «I santi Padri, tra cui Giovanni Crisostomo, Ambrogio, Leone Magno e Gregorio di Nissa, non furono grandi retori perché furono grandi predicatori: furono grandi predicatori perché furono prima di tutto grandi retori». Cioè: la loro efficacia non dipendeva solo dal contenuto ma dalla padronanza dei codici culturali del proprio tempo.
La lezione di Leone è vitale. Perché il linguaggio del potere non è mai così forte come quando riesce a passare per naturale, ovvio, neutrale. E anche chi crede di opporvisi può finire col parlarne la stessa lingua. È il rischio che Prevost individua quando scrive: «La Chiesa dovrebbe resistere alla tentazione di credere di poter competere con i moderni mass media trasformando la sacra liturgia in uno spettacolo».
Prevost cita Tertulliano: «Lo spettacolo visivo è il dominio del secolo». Lo diceva a proposito del circo romano, ma vale anche per il nostro tempo. Oggi lo spettacolo è ovunque: in politica, nella scuola, nella cultura, nella spiritualità. Ma se tutto diventa scena, cosa resta dell’esperienza reale? Se tutto è esposto, cosa resta da custodire? Proprio qui si apre una forte responsabilità civile e “politica” per la Chiesa. In un tempo in cui anche il potere secolare si appropria di forme liturgiche, rituali, il suo ruolo è anche quello di smascherare ogni manipolazione del sacro, ogni simulacro di salvezza che si travesta da messianismo politico.
E se la Chiesa rimanesse silente di fronte all’incantamento della parola del potere? Per Prevost la risposta è chiara: «La nostra missione è introdurre le persone alla natura del mistero come antidoto allo spettacolo». Se la Chiesa restasse in silenzio rinuncerebbe alla propria missione. E indica un compito preciso: «L’evangelizzazione nel mondo moderno deve trovare i mezzi adeguati a riorientare l’attenzione del pubblico, spostandola dalla spettacolarità verso il mistero». Ma questa non è solo una questione religiosa. È una sfida che riguarda tutti coloro che credono nella possibilità di una parola che non domini, ma liberi.
La sfida politica del XXI secolo è tutta qui: non si tratta solo di combattere con dati, fatti o leggi, ma con forme, visioni, parole che siano capaci di ricostruire un immaginario condiviso. Perché le democrazie non si fondano solo su istituzioni, ma anche su storie comuni, su simboli e linguaggi. In un’epoca in cui la retorica del potere è ovunque, abbiamo bisogno di uno sguardo che sappia riconoscerla — e poi disinnescarla. Magari con la stessa ironia del pirata di Agostino. E con la stessa inquietudine.>>.
