Un piano con ruolo dello Stato
Come misurare la ripartenza per economia e servizi
Romano Prodi in Un piano industriale per fare ripartire l’azienda Italia, su Il Messaggero, e Dario Di Vico in I prossimi impegni per misurare la ripartenza, su Il Corriere della Sera, indicano idee, percorsi e scosse necessarie per dare lena al nostro Paese per la ripresa in un quadro ancora di emergenza causata da un virus non solo sconosciuto ma insolito nel suo comportamento (asintomatici contagiosi!!!). Prodi insiste, come già in precedenti interventi, sulla necessità di un piano industriale dello Stato per rilanciare il sistema delle imprese. Ricorda quanto è successo in tutte le grandi crisi, anche questa inattesa pandemia ha rimesso in gioco il ruolo dello Stato nell’economia. Da molti decenni infatti ci si era solo dedicati ad emarginare in tutti i settori l’intervento pubblico, a partire dall’industria per finire con la finanza. Sottolinea che in poche settimane siamo entrati in un altro mondo::tutti si appellano allo stato e i governi mobilitano ogni risorsa disponibile a servizio delle imprese, indipendentemente dall’ideologia dei governanti stessi.(…)
Il lungo articolo di Prodi (v.allegato) così si conclude. Non voglio a questo punto ripetere quanto ho già scritto su queste colonne, che nessuna politica industriale può essere efficace senza la preparazione di nuove risorse umane, sia nelle scuole tecniche, sia nei corsi di tecnologia applicata a livello universitario, sia nella ricerca specializzata a servizio dei settori trainanti dell’economia italiana. Tale problema non è stato mai affrontato con la dimensione e l’urgenza necessaria, ma diventa ……
improcrastinabile nel momento in cui la stessa crisi apre gli orizzonti di una rivoluzione tecnologica senza precedenti. Su quest’aspetto bisogna che tutto il paese senta questa sfida come primaria ad ogni suo livello. D’altra parte, già da molti anni, abbiamo visto un crescente numero di imprese italiane acquistate da compratori stranieri, che tuttavia solo in casi eccezionali hanno portato da noi investimenti nuovi (così detti greenfield). Tutto questo costituisce un’ulteriore prova che i freni allo sviluppo delle nostre imprese non sono nei costi di produzione, ma negli ostacoli ad intraprendere, propri del nostro paese. In queste osservazioni mi sono limitato a toccare solo gli aspetti che riguardano i necessari e urgenti cambiamenti da mettere in atto nel quadro già esistente, senza toccare capitoli che saranno di importanza determinante come la politica ambientale e la diffusione nell’uso dei big data e dei nuovi strumenti di informazione in tutto il sistema produttivo. Nemmeno ho tentato di riflettere sugli enormi cambiamenti che questa pandemia produrrà nei confronti del ruolo dello Stato nel settore della sanità. Per ora è urgente riflettere su come debbono cambiare le cose che già dobbiamo maneggiare ogni giorno.
Dario Di Vico (v.allegato) inizia con questa premessa. Solo aziende sane e moderne possono garantire buoni livelli occupazionali, sbocchi per i nostri talenti e evitare che il dopo-emergenza sia solo debito e sussidio. L’Italia delle fabbriche alla fine è ripartita ieri con 4,4 milioni di lavoratori che si sono aggiunti ai loro colleghi che non avevano mai smesso. A sbloccare l’impasse un contributo importante è arrivato dal basso con gli accordi di contrattazione aziendale sulla sicurezza che hanno arricchito i protocolli romani, grazie anche al coinvolgimento di virologi come Roberto Burioni e Giuseppe Remuzzi. Prosegue. Se prendiamo come test l’industria alimentare, rimasta aperta lungo il lockdown, il bilancio – fatto proprio ieri da Marco Lavazza – suona positivo: le aziende sono riuscite a garantire la sicurezza dei dipendenti, l’assenteismo è stato basso, il ricorso allo smart working molto frequente e apprezzato e gli orari sono stati rimodulati su tre turni per sette giorni. Vedremo se anche negli altri settori, a cominciare dalla meccanica, l’indirizzo si confermerà e soprattutto se le barriere anti-contagio si dimostreranno efficaci come promesso. (…)
Conclude con quattro considerazioni:
La prima – Nel momento in cui disporremo di questa mappa potremo ragionare anche sull’ipotesi di reshoring. Riportare indietro quelle lavorazioni – mascherine e principi attivi, ad esempio – che erano state delegate all’Asia e che in un’ottica di autosufficienza delle grandi aree regionali come l’Europa avrebbe senso richiamare. Il professor Romano Prodi sostiene da tempo che si tratta di un’operazione fattibile e che il differenziale di costo del lavoro tra Cina e Italia ormai non sarebbe così proibitivo. (…)
La seconda – La seconda sfida che si troveranno di fronte gli imprenditori riguarderà il rapporto con la mano pubblica. L’orientamento prevalente nel governo sembra quello di approfittare della crisi pandemica per un revival dello Stato imprenditore. Il ministro Stefano Patuanelli in più di una sortita ha anticipato di avere piani per le telecomunicazioni, l’energia e l’acciaio di Stato ma francamente, al di là delle obiezioni di carattere politico-culturale che pure si potrebbero muovere, in questo momento la burocrazia italiana non sembra disporre delle esperienze e delle competenze necessarie per vestirsi «alla francese». (…)
La terza – Il terzo campo d’impegno riguarda la tecnologia. La Rete è stata consacrata dal lockdown come infrastruttura-regina, migliaia e migliaia di italiani in queste settimane hanno fatto un corso accelerato di apprendistato digitale – persino Maurizio Landini, che lo ha confessato in tv – e il lavoro da remoto è diventato pratica di massa. Sarebbe paradossale proprio quando nella società italiana, in passato refrattaria, sono avanzate le condizioni per una modernizzazione di sistema che l’industria non avesse gli strumenti per proseguire la sua corsa nel mondo del 4.0. (…)
La quarta – Resta, infine, il futuro delle Pmi. Nella Grande crisi abbiamo conosciuto una decimazione delle piccole imprese, specie quelle che erano concentrate nelle lavorazioni a basso valore aggiunto. Ora ci sono i presupposti di una seconda drastica scrematura, se non altro perché i Piccoli che si sono rivelati resilienti allora, oggi hanno 12 anni in più e non c’è stato l’auspicato rinnovamento generazionale. È così utopistico pensare e chiedere di governare questo processo senza subirlo? Per la ramificazione che può vantare la piccola impresa italiana è una questione che travalica l’economia e investe direttamente il consenso politico.
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