UN PATTO POST FORDISTA – F.Pellis – sindacato & democrazia 23/9/10

Flavio Pellis, segretario generale di AReS, ha inviato un interessante articolo in risposta a quanto da noi pubblicato con “ Sul terremoto Marchionne”. L’Associazione per il Riformismo e la Solidarietà è sorta in ambito del Partito Democratico ed il suo Presidente è Pier Paolo Baretta, parlamentare Pd, già segretario Nazionale Fim e segretario Confederale Cisl. Alleghiamo testo.Vedi anche il sito www.associazioneares.it .

Flavio Pellis – AReS    

Le recenti accelerazioni imposte dal mondo Confindustriale, capeggiate da FIAT (Pomigliano, disdetta di Federmeccanica del Contratto Nazionale 2008), avallate e giustificate dal Ministro del Lavoro, lasciano intravedere la scelta di una “cindizzazione” dei rapporti sociali, quale parametro prevalente su cui fondare la competizione internazionale.

La scelta strategica che appare è la decisione di puntare sulla contemporanea presenza di bassi salari e condizioni lavorative (turni, ritmi, orari, riposi, ecc.) decise unilateralmente ed imposte dall’impresa, derogando da norme nazionali collettive ed uniformi: fenomeni già largamente presenti e diffusi in Cina e India (da qui il termine: CINDIA).

In sostanza il lavoro viene considerato non solo come un costo da contenere (peraltro, quello italiano è poco più della metà di Francia e Germania), ma quale componente residuale rispetto a quella tecnologica; quindi sono ritenuti più adatti e funzionali modelli gerarchici e metodi gestionali autoritari.

Ritengo tale scelta non solo sbagliata, ma anche miope, perchè ci sarà sempre un paese emergente in grado di offrire manodopera ad un costo sempre minore (oggi Cina e India, domani …?).

Il terreno competitivo del futuro sarà sempre più la conoscenza, cioè produzioni di beni e servizi ad alto valore aggiunto, con contenuti di tecnologia, know-how, di creatività, di qualità, sempre in evoluzione e non replicabili altrove, in grado di garantire profitto, reddito e occupazione; questo è il destino di tutti i paesi più industrializzati e penso debba esserlo anche dell’Italia.

Credo quindi, che si ponga con urgenza, una riflessione sul ruolo sociale del lavoro, sulla responsabilità sociale delle imprese, sul rispetto di norme e regole uniformi e condivise; ma anche sulla necessità di un salto di qualità culturale, di autonomia e contrattuale delle organizzazioni sindacali, uscendo dalla logica perversa della divisione tra chi è più realista e chi è più radical-contrario; posizioni che sono entrambe, sia pure opposte, funzionali a lasciare campo libero alle decisioni unilaterali d’impresa: accettandole e subendole, oppure rifiutandole a priori, lasciando comunque indeboliti ed indifesi i lavoratori.

Confindustria e Federmeccanica (sospinte da FIAT) sembrano dimenticare che le imprese, nonostante il ricorso massiccio ad automazioni e tecnologie informatiche, per fronteggiare le continue sfide competitive del mercato globale, hanno necessità di valorizzare il lavoro umano intelligente e creativo, in dosi sempre più consistenti per il proprio successo; perciò il lavoro resta l’elemento fondamentale nel rapporto impresa–mercato. Il fattore umano è sempre più risorsa strategica e sempre meno appendice delle macchine, in quanto la velocità dei cambiamenti è tale che le imprese richiedono sempre più, responsabilità, impegno, disponibilità, adattabilità, flessibilità; quindi, “consenso ai fini d’impresa”.

Il punto è se tale consenso viene passivamente dato o coercitivamente estorto, oppure se, come credo, può rappresentare il tema fondamentale per un nuovo patto; cioè passare dal vecchio compromesso fordista che scambiava la piena subordinazione con la piena sicurezza (che oggi non funziona più, come sollecitato dal prof. Aris Accornero), ad un nuovo patto post-fordista, capace di scambiare qualità del lavoro, rischi, responsabilità, creatività, con la partecipazione dei lavoratori; partendo dall’ovvia constatazione che l’incremento della produttività ed il miglioramento dell’efficienza sono condizioni per la crescita e lo sviluppo competitivo.

Questi elementi, alla cui formazione concorrono molteplici fattori, tra cui investimenti ed ammodernamenti tecnologici, ma anche modelli organizzativi e capacità dinamiche di risposta alle mutevoli condizioni del mercato globale, rimangono comunque fortemente influenzati dal grado di coinvolgimento (o meglio, “partecipazione”) dei lavoratori nelle fasi del processo produttivo.

La premessa da cui partire è che sia dichiarata in modo esplicito, da entrambe le parti (impresa e rappresentanza dei lavoratori), la condivisione degli obiettivi dell’impresa, intesi come mantenimento e sviluppo della competitività. Detto a rovescio: l’impresa non competitiva deperisce, le cui conseguenze negative si traducono in cassa integrazione, licenziamenti, chiusura della fabbrica, ecc.; scenari visti tante volte, sopratutto in questi ultimi tempi.

Ciò non significa acquiescenza ed accettazione passiva di qualsiasi decisione dell’impresa; partecipazione non è sinonimo di subalternità, perché restano intatte le diverse rappresentanze degli interessi: l’impresa che tende a realizzare il profitto, l’utile da dividere tra gli azionisti; i lavoratori e le loro rappresentanze che tendono a migliorare le condizioni di lavoro e di vita ed allargare l’occupazione; tali divergenze, però, stanno insieme solo in un’impresa competitiva, e possono trovare un punto di equilibrio in un quadro accettato e condiviso di regole del gioco; perciò, come si può conciliare la solidità competitiva dell’impresa con la valorizzazione del lavoro e dell’occupazione?

La condizione è che entrambi (lavoratori ed impresa), pur mantenendo le funzioni del CCNL di tutela retributiva legata all’inflazione e di un quadro normativo di diritti e doveri delle parti, accettino esplicitamente un sistema di relazioni industriali partecipative fondato sulla reciprocità dei rapporti (riconoscimento dei rispettivi ruoli, pari dignità, correttezza di relazioni, informazioni preventive, assunzioni di responsabilità, ecc., ed anche regolazione delle eventuali forme di dissenso).

Ciò implica che entrambi (impresa e lavoratori) compiano un salto culturale, cioè acquisiscano la consapevolezza di valori e ragioni comuni e condivisi, che rendano reciprocamente conveniente definire obiettivi di efficacia ed efficienza perseguibili, negoziando e definendo intese centrate sulla conoscenza, discussione ed implementazione dei piani produttivi e sulla distribuzione dei benefici conseguenti tra lavoro e capitale in funzione del contributo dato da ciascuno.

La scelta partecipativa, basata sul consenso, non elimina il conflitto sociale, ma lo gestisce nella logica di autonomia contrattuale non aprioristica, cercando di prevenirlo e riducendone i costi distruttivi; inoltre, dal punto di vista sindacale, è dichiaratamente contrapposta sia al sindacato antagonista, sia al sindacato subordinato; rappresentando invece, l’espressione del sindacato autonomo soggetto sociale, che esercita il suo ruolo contrattuale collocando la partecipazione collettiva nella prospettiva di una crescita della produttività e del più generale livello di benessere anche per i lavoratori e l’occupazione.

Su quest’ultimo versante, quello occupazionale, c’è da osservare che le prime deregolamentazioni sono intervenute con la proliferazione dei contratti atipici, che per loro natura sono al di fuori delle regole contrattuali e dei diritti.

La crisi, originata come crisi finanziaria, tradotta in crisi industriali, che si sono scaricate in crisi del lavoro, è ancora in atto, nonostante sia stata descritta prima come inesistente, poi come già superata, infine come conseguenza del trascinamento “greco”, oppure richiesta dall’Europa, ecc., pur di evitare di affrontare la questione delle diseguaglianze nella distribuzione dei redditi, ed in particolare l’impoverimento dei redditi da lavoro/pensione a vantaggio di rendite/profitti, che contribuisce notevolmente alla stagnazione della domanda interna, che è uno dei maggiori fattori alla base dell’attuale crisi economica (da noi non ci sono, come in altre parti del mondo, né fallimenti di grandi banche, nemmeno una bolla immobiliare da riassorbire) e che resta comunque influenzata anche dal basso livello di occupazione dell’Italia, che è l’ultimo in Europa: appena il 56,9%, contro il 70,9% della Germania, il 69,9% del Regno Unito, il 64,2% della Francia, il 64,6% dell’Unione europea.

Di fronte a questi dati, come è possibile pensare di deregolamentare ancora, invece di implementare politiche di riequilibrio e di crescita, anche occupazionale stabile con adeguati interventi non solo difensivi ma di sviluppo?

In Germania si sono mantenuti livelli salariali elevati, si è contenuta la disoccupazione e difeso l’occupazione, peraltro con un forte ruolo contrattuale giocato dall’IG Metall.

Parafrasando il Governatore di Bankitalia Draghi: Germania docet?

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