Quando ero bambino, era normale sentire levarsi dal Cappel Verde (non ho ancora digerito il cambio di nome imposto a questa storica osteria nonese) un coro di amici che, dopo acciughe o salame innaffiati da barbera, cantavano “Vola colomba”, “Era una notte che pioveva”, “Dove sei stato mio bell’alpino”, “Rosamunda”, “Ciao Ciao bambina”. Ora ci si ubriaca come e più di allora (secondo me, peggio), ma prova a trovarti dopo cena con amici, anche di sicuro affidamento.
Difficile cominciarne una e portarla alla fine. O c’è uno che ridacchia, o ce n’è due che parlottano forte tra di loro, o ce n’è tre che ne intonano un’altra, o chi l’ha cominciata non sa bene tutte le parole e la abbandona a metà. Cantiamone una che sappiamo tutti, dice il saggio. Ma una così è un problema trovarla. Anche questo è segno che le nostre identità si sono sfilacciate, decomposte, irrimediabilmente separate e si è smarrita una colonna sonora comune.
Fanno eccezione i miei amici pinerolesi con cui la fraternità ormai più che trentennale è coltivata dalla comune passione per il repertorio della tradizione partigiana, anarchica e comunista. Ma anche con gli anni settanta sappiamo riempire certe serate ora troppo rare di note e di voci persino curate: da “E la pioggia che va” a “Una ragazza in due”, quando torno a casa non ho più niente da chiedere alla settimana successiva. Al matrimonio di Gianpaolo e Marina, stavamo cantando sotto un pergolato in giardino: pur di ottenere il nostro allontanamento, il proprietario del ristorante dovette dire che stava per liberare i cani.
E dei cortei operai alla Fiat ricordo con piacere non certi slogan truculenti ma i cori collettivi. Non si cantava solo “Contessa”, “O cara Moglie”, “I morti di Reggio Emilia”, ma anche “Calabrisella mia”, “Sciuri sciuri”, “Vitti ‘na crozza”, “Romagna mia”, “Piemontesina bella”.
Era l’Italia operaia che trovava anche nella musica popolare la via per riconoscersi e per confermare la propria fratellanza ribelle. Il coro del 25 aprile quest’anno mi ha entusiasmato. Tutto è stato curato, la parte vocale, quella strumentale, i testi. I testi per me sono commoventi e mi sento libero fra amici e compagni quando intercetto negli altri la mia stessa commozione.
Tutto questo per dire che oggi pomeriggio una famiglia di pellegrini festeggiava nel bel cortile verde della casa Monsignor Vigo il compleanno della creatura sparando musica ad alto volume. Ma è l’alto volume a darmi fastidio? Dopotutto sono le tre del pomeriggio. Oggi è festa. Un po’ di pazienza. C’è di peggio nella vita, per esempio Bossi o il nucleare. Non sopporti il proletariato che ascolta un solista eseguire “Il clarinetto” al karaoke? Guarda che anche noi alla festainrosso qualcuno rompiamo di sicuro. Giovanna mi esorta alla tolleranza.
Ecco, adesso ho capito che cosa mi dà fastidio, tremendamente fastidio. Questi mettono musica al computer a tutto spiano, non perchè si divertano a disturbarmi. Il perchè è un altro: non solo non sanno suonare, ma non sanno nemmeno cantare in gruppo. Non hanno mai cantato, perchè se lo facessero si divertirebbero di più rottamando il computer e tutta la famiglia si sentirebbe più unita e più allegra con gli amici.
E’ più comodo il clic di un mouse. Il surrogato arriva in abbondanza con il superfluo. Il necessario si eclissa malinconicamente e i primi a non accorgersi della sconfitta sono proprio quelli che ne vengono privati.
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