Nel paese dei condoni
Da quando è cominciata la sanatoria dei debiti con l’erario, il magazzino fiscale è cresciuto a dismisura. Segno che chi non ha pagato in passato è indotto a non farlo. Su 20 milioni di cartelle, le tasse non riscosse sono cresciute di 24,1 miliardi l’anno, al ritmo di 800 euro al secondo. Per un totale di 217 miliardi di crediti in più in soli nove anni. Sergio Rizzo in “Tu chiamala se vuoi rottamazione”, su L’Espresso n.10 di marzo 2025, commenta con dati alla mano quanto avviene nel paese dei ripetuti condoni che i politici rinominano diversamente.
Così inizia l’articolo di Sergio Rizzo << Settecento sessantaquattro euro e dieci centesimi al secondo. Ecco il ritmo con cui cresce in Italia la montagna di tasse non pagate. Perché si fa presto a dire: rottamazione. Questa parola arrivata in auge con l’avvento della motorizzazione di massa, contrariamente al significato letterale è diventata sinonimo di un’azione virtuosa che rigenera ogni cosa. Fa crescere il mercato dell’auto, stimola l’acquisto di nuovi elettrodomestici, incrementa la produzione edilizia. Induce perfino chi non paga le tasse a pagarle, finalmente.
Da otto anni a questa parte la rottamazione delle cartelle è l’ossessione di ogni governo: che sia di centrosinistra, di centrodestra, o “tecnico”. L’ariete, cioè Matteo Salvini, fa strada. E tutti gli altri. Il concetto è elementare. Facendo pagare a rate con lo sconto, senza le sanzioni che mandano in orbita le somme dovute, i contribuenti morosi metterebbero mano al portafogli senza fare troppe storie. E sarebbe anche una mano santa per il fisco di un Paese dove finì alla gogna additato al pubblico disprezzo un ministro (Tommaso Padoa-Schioppa) che osò dire «le tasse sono bellissime», solo perché senza quelle non avremmo scuole, sanità, strade e sicurezza.
Ma è davvero così? I nuovi capi dell’Agenzia delle entrate riscossione, la vecchia Equitalia che ha cambiato nome nel tentativo di abbattere la cattiva reputazione di cui certi politici a uso e consumo del proprio consenso presso molte categorie produttive l’avevano circondata, sbandierano i grandi successi ottenuti nella lotta all’evasione. Senza però che il trionfalismo riesca a occultare del tutto la realtà dei numeri.
Otto anni fa l’ex direttore di Equitalia e dell’Agenzia delle entrate, Ernesto Maria Ruffini, raccontava che gli italiani erano sepolti sotto una valanga impressionante di debiti con il fisco. Più di mille miliardi di euro. Per la precisione, 1.058. Ma una bella fetta, più di 200 miliardi, era irrecuperabile: cancellata dalla giustizia tributaria. Non restavano che 841 miliardi, teoricamente aggreditali. Una somma enorme, sufficiente a coprire la spesa pubblica di un intero anno. Un terzo della cifra, però, figurava solo sulla carta. Quasi 140 miliardi erano dovuti da soggetti falliti, 78 miliardi da morti o imprese non più esistenti, 92 miliardi da presunti nullatenenti, 28 miliardi risultavano sospesi per «forme di autotutela o sentenze varie».
Il magazzino dei crediti fiscali veri e propri si riduceva perciò a 506 miliardi, e sarebbe stato comunque un gruzzolo mica male. Dopo aver pagato tutte le pensioni, l’assistenza sociale e la sanità per un anno, sarebbe avanzata ancora qualcosina. Se però il recupero di 314 di quei 506 miliardi non avesse fatto sprecare invano tante energie, considerando le innumerevoli azioni esecutive tentate per recuperarli senza alcun risultato concreto.
Poi c’erano le somme dilazionate, gli incassi già effettuati e quisquilie varie. Risultato? Fatti tutti i conti, il magazzino vero e proprio non superava 85 miliardi di euro. Ma siccome di questi 85 miliardi ben 34 non risultavano riscuotibili a causa di «norme a favore dei contribuenti» (così disse Ruffini in Senato all’inizio di febbraio del 2016), l’amara conclusione era che la somma effettivamente riscuotibile, ma anche questa sempre in teoria, ammontava a non più di 51miliardi. Ossia, neanche il «5 per cento del carico lordo globale». Un disastro. (…) per proseguire aprire l’allegato
Il sindacato deve riflettere, in particolare la Cisl, su quanto racconta Sergio Rizzo e sugli articoli allegati. Senza una radicale modifica della politica fiscale del governo è oggettivamente impensabile porsi – a breve – l’obiettivo di definire un patto sociale o un patto di concertazione della politica dei redditi sui quali insiste, appunto, la Cisl di ieri e di oggi. Con una simile strategia governativa sono possibili accordi su singoli temi su piattaforme ben definite.
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