Una crisi profonda quella iraniana. Rappresenta gravi pericoli per la stabilità dell’intera regione, attraversata com’è da profonde, difficili e complesse questioni economiche, sociali e religiose. Con un regime totalitario (militare e religioso) scosso da continue proteste e mobilitazioni di massa della società civile che rivendicano diritti civili, politici e modernità. Un’area da sempre considerata strategica, che nei due ultimi secoli è stata terreno del “ Grande Gioco”, da parte delle potenze imperiali del tempo, quella britannica e quella zarista, e, nel novecento soprattutto dagli Stati Uniti. L’Iran è diventato via via un crocevia strategico di crescente rilevanza con la scoperta di immense risorse energetiche, con il quale interagiscono anche le nuove potenze ( es. la Cina) ed alcuni dei principali stati europei, tra cui l’Italia.
L’Iran ( ex-Persia) è un paese antico, un popolo di etnie e fedi diverse con grandi tradizioni nazionali, a volte di difficile comprensione anche per chi, in occidente, segue con attenzione le drammatiche vicende che da molti anni contrassegnano quella terra. Si fatica non poco, infatti, ad individuare i motivi reali dell’aspro conflitto in corso nella popolazione, tra ayatollah moderati e radicali; individuare gli avversari ed sostenitori del regime di Ahmadinejad -Khamenei.
Quello che emerge con chiarezza è la domanda di libertà a cui si contrappone la repressione violenta del regime: armi e manganelli dei pasdaran, carcere, tribunali e sentenze di morte. C’è chi profetizza che il regime manifesta spietatezza perché sarebbe giunto al capolinea. Chissà? Speriamolo, di certo gli iraniani hanno orgoglio e identità tali che sarà difficile farli tacere, sottometterli a lungo sotto un tallone di ferro.
Può essere utile ricordare, per capire bene lo spirito di indipendenza e libertà di quel popolo, alcuni cenni storici lontani nei secoli e recenti. Ricordare, cioè, che a quei confini vennero fermate duemila anni fa anche le invitte legioni romane. Trent’anni fa quell’orgogliosa identità di popolo – tuttora viva – scacciò con la rivoluzione pacifica di Khomeini ( esiliato a Parigi) il regime dittatoriale, modernizzante sì, ma corrotto, dello scià Muhammad Reza Pahlavi, nonostante la forza repressiva dell’esercito e della SAVAK, la polizia segreta addestrata dai servizi segreti americani. Quello Scià che fu a capo del colpo di stato che ventisei anni prima (agosto 1953), aveva deposto il primo ministro Mossadeq che aveva nazionalizzato le compagnie angloamericane del petrolio. Lo scià Reza Pahlavi divenne il gendarme degli Usa nel Medio-Oriente.
Le elezioni dell’anno dopo, 1980, portarono al governo il laico Bani Sadr. Khomeini, suprema carica spirituale, e di fatto politica del paese, seppure ostile a Bani Sadr, omologò la sua elezione. Il khomeinismo favorì la supremazia clericale sul laicismo e fomentò manifestazioni anti occidentali che ben attecchirono sull’onda dell’antimericanismo colpevole di aver dispensato “modernità” ad un ristretto ceto sociale. In quel contestò maturò l’assedio delle “guardie della rivoluzione” all’ambasciata americana. Seguì la fallimentare operazione dei marines americani, sbarcati dagli elicotteri per liberare gli ostaggi rinchiusi nell’ambasciata. Quell’episodio costò caro all’allora Presidente Usa Carter che non venne rieletto per il secondo mandato, ed accentuò l’influenza degli ayattolah ( il 90% della popolazione è di confessione sciita) sul paese che si stava mobilitando nella guerra santa per resistere e respingere l’aggressione irakena del sunnita Saddam Hussein, generosamente armato e finanziato dagli americani.
La prima vittima illustre della guerra irakena-iraniana(1980-88) fu Bani Sadr: Khomeini lo degradò da comandante in capo delle forze armate, provocò la crisi di governo obbligando Bani Sadr all’esilio in quella stessa Parigi, da dove Khomeini era partito per rientrare in patria dopo la trionfante rivoluzione del 1979.
La sostituzione di Bani Sadr, con Ali Kamenei, accelerò l’islamizzazione del paese con la chiusura delle università, l’imposizione del velo alle donne ed un generale peggioramento della condizione della donna, che dalla modernizzazione voluta dallo scià aveva realizzato significativi progressi.
Gli accadimenti più recenti non sono sempre di facile interpretazione, a causa delle divisioni esistenti fra i vari ayatollah, delle correnti sciite più o meno radicali, dei frequenti cambiamenti di posizioni. Moussavi, per esempio, uno dei leader moderati delle manifestazioni di questi ultimi mesi, ha un passato radicale e repressivo. Non va inoltre dimenticato che gli appoggi di una parte del popolo al regime è dovuto ai generosi aiuti distribuiti ( voto di scambio, favoritismi in cambio del consenso) grazie alle ricche entrate petrolifere.
La situazione attuale – inquietante e violenta – induce a pensare che in Iran potenti forze reazionarie ed oscurantiste ostacolano l’approdo ad un assetto democratico e pluralista, ma molte voci ( interne ed all’estero) affermano che la componente maggioritaria di quel paese aspira ad essere libera in una democrazia laica. Se n’avuta conferma con l’alta affluenza alle urne delle passate e contestate elezioni presidenziali del giugno 2009, che solo grazie a sfacciati brogli negli scrutini è stato negato l’evidente, cioè la sconfitta elettorale del regime. Altra conferma si è avuta con la massiccia partecipazione alle manifestazioni per la libertà e contro la repressione e la violenza dei pasdaran, spesso a rischio della propria vita. Manifestare con tanto coraggio in un regime di polizia significa che il popolo è ben vivo, che le giovani generazioni non ci stanno più!
Donne e uomini, giovani e anziani, e anche i politici moderati come Mir-Hossein Mousavi, Mehdi Karrubi, lo stesso Hashemi Rafsanjani (terza carica dello stato in quanto capo dell’Assemblea degli Esperti che sceglie il leader supremo), l’ex presidente moderato Muhammad Khatami e l’ayatollah Montazeri, non sono rimasti silenziosi a guardare; la loro presenza e protesta rappresentano la minaccia più seria per il potere di Ahmadinejad-Khamenei .
Infine due annotazioni sulla la questione nucleare e sulle persistenti minacce allo Stato di Israele.
Sulla prima. Anche i grandi pozzi del petrolio iraniano hanno una data di esaurimento e questo argomento favorisce il consenso interno allo sviluppo del nucleare perseguito dal governo di Ahmadinejad, per salvaguardare il futuro energetico ed il progresso del paese. Il petrolio è la principale voce dell’export con i paesi industrializzati e ciò consiglia prudenza nelle decisioni di quei paesi, al di là degli ammonimenti di rito.
Sulla seconda. L’arricchimento dell’uranio (con possibilità di costruire ordigni atomici) e le minacce ad Israele ed all’Occidente vanno di pari passo. Una diversa politica estera dell’Iran (compreso il venir meno di sostegni a questo o quel fondamentalismo nel medio-oriente) favorirebbe la definizione di un accordo per lo sviluppo del nucleare ad uso civile. E’ utopico sperarlo a breve o nel medio termine? Eppure segnali importanti ci sono stati proprio in questi ultimi giorni. Da più parti giungono all’Iran moniti a rinunciare al nucleare militare e, soprattutto, non sviluppare missili capaci di trasportare cariche che possano permettere di attaccare paesi vicini. La disponibilità al negoziato espressa da Obama non è certo decaduta, come neppure le proposte di pesanti sanzioni del Segretario di Stato Ilary Clinton, dell’Unione Europea, a cui si è recentemente aggiunta l’adesione della Federazione Russa per possibili embarghi.
E’ di questi giorni l’annuncio che la Russia ha sospeso la fornitura all’Iran del sistema di difesa missilistico antiaereo S-330 giustificando – rende noto l’agenzia Interfax – la propria decisione con dei «motivi tecnici, che le forniture saranno effettuate non appena questi saranno risolti». La decisione di Mosca giunge il giorno dopo la visita nella capitale russa del premier israeliano Benjamin Netanyahu, che ha incontrato il presidente Dimitri Medvedev e il premier Vladimir Putin. Il sistema S-300 potrebbe infatti essere dispiegato a difesa dei siti nucleari iraniani.
Sul fronte occidentale, il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama ha nominato Robert Ford nuovo ambasciatore americano in Siria. Gli Usa riallacciano così rapporti diplomatici con Damasco, interrotti cinque anni fa, quando George W. Bush richiamò il proprio diplomatico per protestare contro l’assassinio del premier libanese Rafik Hariri. E’ un passo importante della nuova diplomazia americana che punta al recupero della Siria per stabilizzare il medio-oriente e per influenzare in chiave moderata l’Iran.
Sulle dichiarazioni del regime iraniano rimane il dubbio della consistenza reale della capacità iraniana di raffinare uranio in quantità sufficiente per poter costruire ordigni nucleari e di utilizzarli, ben sapendo che ciò significherebbe il suicidio dell’Iran e di gran parte dei paesi della regione.
I segnali di questi giorni inducono più a sperare che a disperare.
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