Ogni due otre mesi l’Istat ci comunica, con il conforto dei dati ufficiali che, in riferimento all’entità del debito pubblico, abbiamo battuto un altro record: attualmente siamo a 1.787 miliardi di euro veleggiando verso il 120 % del p.i.l. . Il dato spaventa per una serie di motivi. In primo luogo storicamente valori percentuali così elevati sono apparsi nella nostra storia soltanto nei primi decenni dopo l’unità d’Italia e in occasione delle due guerre mondiali. Secondariamente ci si chiede come sia stato possibileche, in un periodo di sviluppo economico espansivo si sia potuti pervenire a questi livelli.
I motivi sono molteplici:
– ad un periodo di bassa pressione fiscale ne è seguito un altro con aliquote elevate conformi a quelle europee accompagnato però da un’evasione fiscale senza limitie, soprattutto, non contrastata con efficacia;
– crescita non controllata della spesa pubblica associata ad un incremento notevole della spesa per interessi;
– ed infine il rallentamento dei livelli di crescita dell’economia.
L’esito è sotto gli occhi di tutti ed è ancora più grave qualora si consideri che negli ultimi due decenni abbiamo dismesso, attraverso le privatizzazioni, i gioielli di famiglia senza migliorare l’assetto del nostro bilancio. Il debito pubblico non va demonizzato. Esso svolge delle importanti funzioni: ad esempio la redistribuzione delle spese tra le varie generazioni e la stabilizzazione dell’attività economica con il sostegno della domanda nei periodi di crisi. Chiaramente un elevato livello di debito significa “rubare” ( o meglio ipotecare) il futuro ai nostri figli, cosi come è si indispensabile usare la spesa pubblica in funzione anticiclica, ma sempre con attenzione agli equilibri di bilancio.
Negli ultimi mesi la spesa pubblica ha sostenuto, non solo in italia, l’attività produttiva e gli ammortizzatori sociali, scongiurando così l’arrivo di una fase di depressione dagli esiti socio-economici imprevedibili.
Oggi il dibattito si sta focalizzando su quando sia possibile uscire dai deficit di bilancio senza correre il rischio di bloccare di nuovo l’attività economica. In italia il problema si presenta con sue proprie articolazioni. Si considera il debito troppo elevato, ma cntestualmente si ritiene che si abbiano le capacità per sostenerlo e gestirlo. In effetti abbiamo registrato – fino a pochi anni fa – un avanzo primario mantenendo l’equivalenza tra entrate e uscite al netto degli interessi.
Al di là del dato che gli interessi fluttuano e, a questo proposito, sarebbe interessante conoscere i vari contratti sui derivati siglati non solo dallo stato, ma anche dagli enti locali, ed il loro costo,s i pone il problema di come ridurlo e di dimostrare ai mercati internazionali questa volontà con atti concreti e credibili al fine di evitare gli attacchi speculativi che potrebbero far precipitare il paese in una crisi dalla quale non sarebbero esclusi gli esiti più drammatici.
Per la riduzione del debito vi sono più strade ma sono poche le credibili e le percorribili. Impraticabile la riduzione della spesa pubblica, possibile l’incremento delle tasse solo nei confronti delle rendite e dei patrimoni, appare l’unica via accessibile la crescita del pil. Incamminarsi in questa direzione vuol dire liberalizzare, eliminare rendite e corporazioni, non affidarsi soltanto all’export, ma attivare iconsumi interni attraverso riduzioni fiscali per pensionati e lavoratori dipendenti operando una felice sintesi tra giustizia sociale e politica economica.
In breve nel paese, a partire dalle imprese, si deve avvertire il clima di un nuovo impegno per lo sviluppo in modo che tutti tornino ad investire sul futuro. Altrimenti non ci sarà la gestione del debito, ma del declino ed i mercati ne decideranno velocità ed esito.
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