I CATTOLICI CHE VOGLIONO SALVARE L’ITALIA – M.Dellacqua – cultura 26/9/11
I cattolici furono all’opposizione del Piemonte nonostante il pensiero cattolico-moderato di Cesare Balbo e le speranze seminate dal primo Pio IX. Furono ai margini del Risorgimento nonostante il neoguelfismo di Vincenzo Gioberti. Furono avversari dell’Italia unitaria, nonostante lo sdegnoso non expedit papale subisse graduali erosioni con l’irrompere della questione sociale e con la Rerum Novarum di Leone XIII. Furono all’opposizione del fascismo, nonostante l’intransigenza di Luigi Sturzo e il martirio di sacerdoti come Don Giovanni Minzoni trovassero nella Santa Sede una preminente preoccupazione per il peso delle parole. Furono ai margini della Resistenza solo perchè il prevalere dell’iconografia comunista ha oscurato la partecipazione di tanti cattolici come Igino Giordani, Giuseppe Donati e Silvio Geuna.
Ma, nell’Italia della ricostruzione e poi del miracolo economico, lo scenario cambiò radicalmente e l’azione dei cattolici potè dispiegarsi in tutta la sua forza perchè seppe gestire i vantaggi di una invidiabile centralità. Furono in prima fila nella lotta dell’Occidente contro il comunismo: ma erano convinti di aver avviato “una vera e propria rivoluzione” capace di porre “le basi per una strategia democratica alternativa al capitalismo individualista e al collettivismo marxista” (pag.111). Il partito democristiano, anche se le ha regolarmente sconfitte, emarginate o esibite come fiore all’occhiello, annovera tra le sue elaborazioni più coraggiose il pensiero di Dossetti, La Pira e Lazzati che il comunismo lo volevano combattere sul terreno delle riforme sociali. I governi guidati da Alcide De Gasperi schierarono la “ispirazione” cattolica del partito dello scudo crociato a disposizione della Chiesa cattolica e delle sue battaglie contro “il materialismo marxista nemico dell’uomo”. Tuttavia, possono a buon diritto rivendicare il profilo rigorosamente laico della loro azione politica. De Gasperi ne dette prova quando rispose con memorabile fierezza al Papa che non lo volle ricevere per fargli pagare la colpa di non essersi alleato con i missini a Roma nel 1952: come cristiano accettava la “umiliazione”, ma la respingeva per “la dignità e l’autorità” che rappresentava come Presidente del Consiglio.
Del Colle auspica il ritorno dei cattolici alla centralità del loro protagonismo perduto e li sollecita energicamente ad uscire da quello che egli chiama il “silenzio” degli anni berlusconiani. Ma Del Colle esagera nella sua disistima della presenza cattolica, raffigurata con una bocca incerottata campeggiante sulla copertina del volume. In tema di bioetica e di fecondazione assistita, di inizio e fine vita, di tutela della libertà per la scuola religiosa, di difesa della famiglia tradizionalmente intesa dalla comparsa di nuove forme di convivenza tra i sessi, i cattolici non solo non stanno zitti. Essi levano fieramente la loro voce nel paese. In Parlamento parlano di “principi non negoziabili” e finora hanno ottenuto quello che la CEI vuole. Effettivamente, la loro azione ha meno successo quando il Papa parla di redistribuzione della ricchezza, di revisione del modello di sviluppo, di rispetto degli immigrati, di dovere cristiano dell’accoglienza, di apertura degli spiriti verso una società multietnica e multireligiosa. Addirittura stanno zitti, stavolta sì, se monsignor Rino Fisichella registra che la Lega, “quanto ai problemi etici, mi pare che manifesti una piena condivisione con il pensiero della Chiesa”. E non battono ciglio se, in occasione del caso Englaro, il leghista Cota dichiara che in Italia nessuno deve morire di fame per legge.
In ogni caso, se il protagonismo è difficile, l’unità è impossibile. Anzi, il suo inseguimento appare come un’operazione che ha come unica motivazione accettabile la ricerca di nuove alleanze per nuovi governi o nuove repubbliche. Ma non si possono convocare al servizio dello stesso disegno politico il pensiero e l’opera di Luigi Gedda e Primo Mazzolari, di Aldo Moro e Mario Scelba, del cardinal Pellegrino e del cardinale Siri, di don Lorenzo Milani e di don Luigi Giussani, di Carlo Carretto e di Papa Pacelli, per quanto laboriosi siano i tentativi di inserirli nella dialettica di una sola grande storia da venerare con devozione e ecumenico rimpianto.
La fine dell’unità dei cattolici, per molti come Del Colle, è un trauma ancora doloroso. Esso nasce dal più vasto trauma derivante dall’impatto ancora irrisolto del cattolicesimo con la modernità. L’altro nome della modernità è la secolarizzazione o, ancora peggio, la scristianizzazione: essa coincide con la scoperta bruciante che con la libertà di coscienza il cristianesimo finisce di essere il tutto e comincia a diventare una parte tra le altre. Il passaggio può essere vissuto come fine, ma anche come principio di una storia appassionante per un nuovo ruolo dei credenti nella società di domani, nel dialogo con le altre fedi in uguale libertà.
Per questo nuovo ruolo, non basta più il dialogo tanto caldeggiato da Papa Giovanni che, nel suo messaggio al congresso socialista di Venezia, si mostrava adombrato e provava “pena assai viva” per chi “pensa di poter raggiungere la ricostruzione dell’ordine economico, civile e sociale moderno sopra ogni altra ideologia che non si ispiri al Vangelo di Cristo” (pag.213). Per il dialogo, c’è bisogno di una disponibilità alla reciproca contaminazione e alla comune fatica della ricerca. Non si può prestabilirne l’esito, covando la riserva di più o meno scoperti progetti di fagocitazione dell’altro. Questo dovrebbe capire il senatore Gaetano Quagliariello che invece, apprezzando CL, il cardinal Ratzinger e don Giussani, scrive come “la vera libertà (..) non possa fare a meno di una verità fondante”. Non stupisce l’affermazione di Quagliariello. Amareggia l’approvazione di Del Colle che commenta: “E cioè Cristo” (pag.243). Così tanti cattolici italiani sono risospinti nel pantano del “nulla salus extra ecclesiam” dal quale non sono mai usciti.
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