Guerre…

Guerre con missili e artiglieria e guerre energetiche La “guerra d’attrito” in Ucraina si allarga e coinvolge direttamente sempre più Usa, Nato e Europa. Mancano e urgono iniziative diplomatiche, dell’Italia e dell’Eu, per una “tregua di fuoco” con l’avvio di negoziati alla ricerca di un compromesso che tenga conto della realtà, nella consapevolezza che il proseguimento della distruzione di parte dell’Ucraina, di perdite di molte vite, del numero di giovani orfani è ben più pesante, per l’oggi e per il futuro, di un compromesso per quanto complesso sia oggi definirlo. Se non si avviano i primi passi la metà lontana non è mai raggiungibile. Questo cruciale problema è assente dal dibattito politico elettorale, ma echeggiano solamente il rimpallo delle accuse e indefiniti richiami alla pace.

La guerra guerreggiata in Ucraina e la “guerra” energetica e contro l’inflazione da costi, sono concatenate. Alleghiamo tre articoli che analizzano la gravità della situazione che si “avvita” sempre più.

Lucio Caracciolo in“La crisi energetica e il fattore Berlino”,su La Stampa, così inizia <Il nostro futuro dipenderà in decisiva parte da tempi e modi con cui la Germania uscirà dalla crisi strutturale in cui è finita causa invasione russa dell’Ucraina. Il cancelliere Olaf Scholz fu rapido nel cogliere il cambio di paradigma, classificato “svolta epocale” (“Zeitenwende”). Davanti al parlamento plaudente Scholz annunciò il 27 febbraio un fondo di 100 miliardi per rinsanguare le Forze armate tedesche, disarmate alla fine della guerra fredda, e lo stanziamento di una somma annua pari almeno al 2% del pil per la Bundeswehr, ciò che farebbe della Germania il terzo paese al mondo per investimenti militari. Salto quantico per l’autoproclamata “potenza di pace”.

Il percorso del gasdotto Nord Stream 1

Dalle parole ai fatti – a parte l’annunciato acquisto di caccia F-35 dall’America – il passo si annuncia lungo. Soprattutto per carenza di cultura strategica. Dopo decenni di diffuso benessere e stabilità economica in cui la massa della popolazione si cullava nell’illusione della “Grande Svizzera”, placida assuefazione alla “fine della storia”, la scossa bellica ha colto Berlino con la guardia bassa. Quasi più dell’Italia. A differenza del nostro paese, la Germania era però leader di fatto in ambito europeo. Ci si poteva attendere che il governo tedesco indicasse la linea d’emergenza ai soci comunitari. Dopo sei mesi, non se ne vede traccia. Perché Berlino stessa brancola nel buio, all’insegna del “domani si vedrà”. Nell’eterogenea famiglia euro-atlantica ognuno naviga a vista. Nessuno si attende che Scholz, il cancelliere meno carismatico della storia tedesca, abbia idea della rotta migliore. Altro che locomotiva Germania. I vagoni europei giacciono in binari morti o seguono traiettorie erratiche. Poiché gli Stati Uniti hanno altre priorità, a cominciare dal caos di casa e dalla sfida sempre più calda con la Cina, l’assordante silenzio germanico suona allarmante. Mentre la guerra d’Ucraina non accenna a spegnersi, l’unica “strategia” risulta dalla sua mancanza: rinvio o improvvisazione. In questo semestre bellico sanzioni e controsanzioni hanno incrinato i muri portanti dell’edificio tedesco.   (…).  Così conclude  <.. Ancora, la tensione fra Cina e Stati Uniti e la crisi del modello economico cinese colpiscono la relazione speciale Berlino-Pechino. La Repubblica Popolare è mercato primario per la Germania, ma anche test della bislacca teoria per cui commerciando con un paese autoritario lo apri alla democrazia (Wandel durch Handel). Ovvero conferma che il commercio serve a commerciare, per cambi d’identità altrui servono altre chirurgie, come tedeschi, italiani e giapponesi hanno sperimentato sulla propria pelle.

La crisi del modello Germania ci colpisce in fronte. Berlino garantisce il debito italiano. Per diversi motivi, tra cui spicca l’interesse dell’industria germanica a salvaguardare l’interdipendenza con i partner del nostro Nord. (…)  Vedremo come questo clima influirà sulle decisioni riguardo la revisione del patto di stabilità e crescita (sic). Infine, Germania e Italia, nell’ordine, sono in Europa i paesi che rivelano il massimo dislivello fra volume dell’economia e credibilità dello strumento militare. Le chiacchiere sulla difesa europea, mai molto al di sopra dello zero, si confermano tali via dure repliche della storia. La nostra difesa dipende dall’America, tutto il resto è fuffa.  Preferiremmo non dover scoprire quali sono i limiti che gli americani pongono a sé stessi nella disponibilità a morire per noi. >.  Il testo completo in allegato

Il compromesso sta nel definire il futuro di queste aree

Goffredo Buccini in “La tenuta e la forza dei valori”, Corriere della Sera, così inizia < Gelare per Kiev? Tirare la cinghia per Kharkiv? Il lento ma costante calo d’attenzione sulla guerra e il peso crescente delle sanzioni nella nostra quotidianità potrebbero diventare inversamente proporzionali nel travaglio che ci attende quest’autunno. Conta, certo, la velocità con cui il sistema informativo globale brucia qualsiasi evento. E influisce l’umanissima tendenza all’assuefazione, anche al peggio. Ma la reazione sarà quasi istintiva, nelle ore più buie della sfida energetica. Disagi e paure potrebbero offuscare ai nostri occhi le ragioni reali di ciò che ci capita. Quanto meno gli orrori perpetrati dall’esercito di Putin in Ucraina ci indigneranno dagli schermi delle nostre tv e sulle pagine dei nostri giornali, tanto più ci appariranno gravosi e incomprensibili i sacrifici che imponiamo a noi stessi per colpire il despota russo sul fronte economico. Tenere ben chiaro il rapporto di causa-effetto in questa storia sarebbe invece essenziale per determinarne l’epilogo meno infausto.

Ovviamente nessuno si chiede se morire o no per Danzica, questione su cui dovettero misurarsi i liberali e gli antifascisti europei nel 1939, di fronte all’espansionismo hitleriano. Ma tutti hanno capito che tra breve, e almeno fino alla prossima primavera, non ci aspettano soltanto qualche grado in meno nei caloriferi e qualche lampione spento: si profila un duro colpo al nostro lavoro e ai nostri risparmi dal combinato di inflazione e prezzi energetici infiammati dal conflitto, con la recessione dietro l’angolo e lo spettro della deindustrializzazione evocato da Confindustria.

Venerdì, 2 settembre, il placet del G7 al tetto sul prezzo del petrolio russo è stato una svolta: dura batosta per Putin, serio impegno per noi. Quando Ursula von der Leyen ha invocato la medesima misura anche per il gas, il falco Medvedev ha ammonito che allora di gas russo noi non ne vedremo più neanche un metro cubo (Gazprom, portandosi avanti, ha di nuovo bloccato le forniture fino a chissà quando, per i soliti e assai dubbi guai alle turbine). Necessarie riforme del mercato sono sul tavolo delle cancellerie europee. (…) > Per proseguire aprire l’allegato

Federico Fubini  in “Una mossa che globalizza la crisi ucraina”, sul Corriere della Sera, così inizia < Nel mirino le imprese degli Stati che trattano ancora con il Cremlino I proventi del greggio servono per le spese militari e i volontari della guerra Il «price cap» può segnare una vera svolta nel conflitto. Sono passati appena due mesi da quando Berlino frenava gli Stati Uniti, l’Italia e altri Paesi del G7 sull’idea di mettere un tetto ai prezzi del petrolio russo. Eppure sembra un’eternità. Oggi il gruppo dei sette sembra vicinissimo a un accordo su questo punto e, se ci si arriva, sarà una svolta. Se il governo di Olaf Scholz ha cambiato posizione, è perché ormai gli resta ben poco da perdere dato che per Vladimir Putin non esistono colpi proibiti. Pur di provare a mettere in ginocchio la Germania o l’Italia, il leader russo è pronto a razionare il solo prodotto da esportazione che l’Europa non ha ancora colpito. Ma storicamente non è quest’ultimo – il gas – ad assicurare la parte più importante delle entrate del bilancio del Cremlino. L’energia rappresenta quasi la metà del bilancio del governo di Mosca, ma in tempi normali Putin deve questi flussi finanziari in gran parte al petrolio. È con l’export del greggio che Putin copre da anni le spese del suo corrottissimo apparato militare e di sicurezza da 100 miliardi di euro l’anno. È con quello che paga i «volontari» della guerra ucraina dieci volte il salario medio delle provincie più povere, per convincerli ad arruolarsi. Ed è sempre con le entrate da petrolio che Putin indennizza le famiglie dei caduti con somme così alte da renderle ricche – rispetto ai vicini dei loro villaggi della Russia profonda – e cloroformizzare la protesta.(…) > Per proseguire aprire l’allegato

Alberto Negri, in Gas e petrolio, il «prezzo politico» della guerra”,  su il Manifesto così inizia. < Crisi ucraìna . Finora ci avevano detto e ripetuto che soltanto i mercati potevano decidere i prezzi, con il dogma inviolabile della domanda e dell’offerta. Vuoi vedere che si erano sbagliati? Con la guerra in Ucraina scatenata da Putin scopriamo che gas e petrolio russi possono avere un prezzo «politico», così almeno sembra da quanto deciso al G-7 e dal dibattito in corso a Bruxelles. E perché soltanto calmierare le materie prime energetiche russe? Perché non estenderlo ad altri beni primari, visto che nel mondo si muore ancora di fame? Finora ci avevano detto e ripetuto che soltanto i mercati potevano decidere i prezzi, con il dogma inviolabile della domanda e dell’offerta. Vuoi vedere che si erano sbagliati?In realtà non è così. Non ci siamo sbagliati. Si possono toccare soltanto gas e petrolio dei russi non quello, per esempio, degli americani o delle monarchie arabe assolute del Golfo. Certo in questo caso si vuole sanzionare Mosca e limitare le entrate delle sue esportazioni per colpire la capacità dell’autocrate Putin di continuare la guerra in Ucraina. Ma nessuno oserebbe calmierare il petrolio saudita che è in guerra in Yemen e anche il maggiore acquirente di armi americane e occidentali. Non saremmo diventati improvvisamente “pacifisti”? (…) per proseguire aprire l’allegato

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Luigi Pandolfi in “Se la Germania torna ad essere «il malato d’Europa»”, su Il Manifesto, così inizia < Economie armate. Ieri, lo Statistisches Bundesamt (l’ufficio di statistica tedesco) ha reso noto il dato di luglio della bilancia commerciale. Il surplus è stato di 5,4 miliardi (6,2 miliardi a giugno). Meglio delle attese, ma poco rispetto ai fasti degli anni passato. L’Europa è un modello di integrazione industriale più che di integrazione politica. Un «sistema produttivo integrato» con al centro la Germania e la sua manifattura, che trasforma e assembla semilavorati e prodotti intermedi provenienti per lo più da altri Paesi. Per questo ciò che accade a Berlino non può lasciarci indifferenti. (…) per proseguire aprire l’allegato.

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