DELOCALIZZAZIONI E STRATEGIE – A.Tridente – globalmondo 21/3/11

Cambiano le strategia? La convinzione sulla convenienza di delocalizzazione le imprese in paesi esteri con basso costo del lavoro e deboli legislazioni sociali per i lavoratori si basava sui vantaggi (costo del lavoro lordo) rispetto al nostro paese. La convenienza a delocalizzare in paesi arretrati, timidamente avviati ad essere nuovi paesi emergenti,  sembra essere – oggi- anche quella di produrre e vendere in loco, in virtù di un aumento delle capacità di consumo interno di quelle popolazioni.

E’ quanto afferma Marco Panara nel supplemento “Affari e Finanza” di “Repubblica” di lunedì 14 marzo. Se così fosse si aggiungerebbe una ragione in più per rafforzare nuove strategie rivendicative sindacali, coordinate e globali, per l’aumento dei salari e per legislazioni sociali più avanzate e coordinate in tutta l’Europa.

Secondo queste tesi – non del tutto nuove per la verità – non sarà perciò solo l’esportazione a tutti i costi a salvare salari e occupazione in Italia, ma altri fattori:  l’aumento dei consumi interni, la produttività e, soprattutto, l’innovazione del prodotto, fatto che appare sempre più assente nel caso della Fiat la quale registra ogni mese preoccupanti cadute delle vendite nei confronti delle altre case automobilistiche europee.

Del resto, questi non sono da oggi  i soli fattori capaci di competere con quanti verranno nel Bel Paese per produrre e vendere. Anche questa sembra essere la tesi dei commentatori secondo quanto scrivono sull’inversione di tendenza circa le  ragioni che spingono alle delocalizzazioni.

Storiche firme come Riello e Snaidero – per citarne alcune – lo confermano dichiarando apertamente :  “produrre all’estero non riesportare in Italia ma per vendere là”…

Da quanto si è letto in questi giorni, questa sembra essere divenuta la parola d’ordine per alimentare la nuova tendenza, diversa rispetto alla precedente cui  avevamo dedicato la nostra attenzione: cioè delocalizzazione dettata non solo dalla esigenza di ricercare paesi in grado di offrire condizioni vantaggiose come l’assenza di forti sindacati in azienda, bassi salari e facile sfruttamento della manodopera.

La conferma viene dai paesi emergenti come il Brasile, la Cina e l’India: milioni di poveri sono entrati a far parte della fascia dei cittadini che negli ultimi anni hanno avuto accesso a consumi alimentari decenti; alla scolarità di massa; a nuovi servizi dai quali erano prima esclusi con un formidabile aumento del PIL, che non significa ancora abbattimento delle inaccettabili diseguaglianze esistenti.

Ciò indicherebbe comunque un sorprendente ed indiscusso cambiamento, anche delle capacità produttive, che se affiancato da politiche democratiche e dalla riduzione delle diseguaglianze, rappresenterà un radicale e storico passaggio alla modernità da parte di popoli poveri, dai bassi consumi, in un quadro di incerti diritti sociali.

Per tornare ai problemi posti dagli accordi Fiat di Pomigliano e Mirafiori, e non abbandonando in ogni caso l’urgenza di arginare la Fiat a livello europeo, questo significa ricercare e mettere a punto nuove strategie sindacali unitarie, soprattutto per affrontare gli effetti della globalizzazione e del disordine sociale.

Il progetto di Marchionne va quindi contrastato, oltre che in Italia anche – si ribadisce – a livello dell’area dei 27 paesi dell’Unione Europea: produrre in paesi di facile sfruttamento della manodopera, si rivela la priorità di Marchionne; pagare bassi salari, godere di legislazioni permissive e di illimitata flessibilità di orari e turni di lavoro, più che innovare il prodotto, vera causa della perdita di competitività della Fiat.

Per queste ragioni è più che mai urgente la ricerca dell’unità di azione sindacale e di coordinamento con la Federazione Europea dei Metalmeccanici per agire rapidamente al fine di raggiungere l’obiettivo della equiparazione di norme contrattuali e legislative.

Solo questo percorso può sconfiggere l’intento della Fiat di mettere lavoratori contro lavoratori, in una pericolosa e involutiva guerra fra poveri.

 
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