Il processo di decolonizzazione dell’Africa negli anni sessanta non ha comportato l’immediata sua emancipazione civile e politica. Infiniti conflitti, colpi di stato militari, scissioni, guerre civili e stragi hanno accompagnato la storia africana negli anni della decolonizzazione fino ai decenni successivi, e anche ad anni recenti.Chi non ricorda l’assassinio del primo ministro Lumumba, nell’allora chiamato Congo belga?
Complici gli ex colonizzatori belgi che architettarono la scissione del Katanga, la regione ricca di immense risorse minerarie, e alla guerra civile che causò decine di migliaia di vittime civili ed anche la morte di una decina di aviatori del nostro paese intervenuto per ragioni umanitarie su mandato dell’ONU. E la guerra civile nel Mozambico? E quella nell’Angola? E la repubblica Centroafricana con il dittatore Bokassa? E il Ruanda sprofondato in un bagno di sangue con 800.000 morti e due milioni di profughi?
Si disse che la decolonizzazione aveva favorito questa instabilità, e che questa dava ragione ai colonizzatori che non avrebbero dovuto abbandonare quei paesi (ricchi di risorse minerarie), con popoli incapaci di autogovernarsi. Che in fondo era giusto favorire governi autoritari, governi meglio se di militari, per tenere a bada popoli incivili e riottosi alla disciplina e all’ordine.
Atteggiamento che si è ripetuto ancora nei confronti dei paesi del Nord Africa. Dittatori amici ai quali si concesso di tutto, anche il baciamano come quello di Berlusconi all’amico Gheddafi, pur che tenessero fermi i giovani impedendo loro di emigrare, di ribellarsi, di rivendicare libertà e giustizia.
Sono durati troppo, è vero, ma abbastanza per avere sicuri rifornimenti di energia e la collaborazione affinché – come racconta Fabrizio Gatti dell’Espresso nel suo libro “Bilal”, edito dalla Rizzoli – impedissero ai profughi dell’Africa sub sahariana di raggiungere la costa siciliana.
La primavera di libertà che scuote ora quei paesi pone nuovi problemi ai paesi occidentali. Non solo quello di tutelare i propri interessi energetici e minerari necessari alle loro economie da parte dei nuovi governi, ma anche di stabilire con loro un reciproco ed equo rapporto commerciale.
Ma come porre fine alla violenza, farla finita con la quarantennale dittatura di Gheddafi e transitare alla democrazia anche in Libia, e negli altri paesi investiti da questa primavera di libertà senza interventi militari occidentali, con il seguito disastroso di bombardamenti spesso con vittime civili in difesa delle quali si è cercato di legittimare gli stessi interventi?
Va subito detto che a scanso di equivoci, quand’anche fossero interventi disinteressati e finalizzati a proteggere le popolazioni, ogni intervento esterno sarebbe comunque inquinato da consolidati sospetti: cioè esclusivamente diretti a conservare gli interessi economici occidentali. Esistono invece, seppure ancora fragili e non consolidate, organizzazioni regionali che potrebbero essere lo strumento idoneo a intervenire, a nome e con apposite delibere dell’ONU; e cioè la Lega araba e l’Unione africana. Certo, nella regione sono ancora presenti governi corrotti e autoritari che potrebbero rendere inefficace e difficoltosi tali interventi.
Per quanto difficile possa apparire tuttavia oggi il problema, e certamente tale da richiedere molto tempo per prepararne il personale necessario alla funzione richiesta, questa capacità potrebbe essere ottenuta in un tempo ragionevole, naturalmente se avviata da subito.
In effetti l’Unione africana un primo, incerto tentativo con rappresentanti sudafricani lo ha tentato. Seppure inefficace, perché timido e forse inadeguato per la ancora scarsa esperienza, non deve scoraggiare. Arabi ed africani possono e debbono in un futuro non lontano esser loro ad autogestirsi i conflitti in quell’area, in modo indipendente, escludendo le sempre sospette interferenze occidentali. Del resto, non sempre efficaci anche queste ad impedire il massacro di civili come hanno dimostrato le guerre jugoslave con i massacri di Srebrenica e in Ruanda, ed ora in Libia, Siria e Yemen.
Sono circa otto novemila i nostro militari all’estero in zone calde, in funzione di interposizione(non così in Afganistan, dove la guerra è guerra e non interposizione). Aiutare Lega araba e Unione africana, con la collaborazione dell’ONU, ad addestrare a queste funzioni personale arabo ed africano è il solo modo per affrontare a gestire senza violenza, o ridotta al minimo, i conflitti che possono ancora scoppiare.
Va anche obbligatoriamente affrontato il problema delle regole di ingaggio del personale militare; ossia il fatto che queste regole non siano limitate alla sola sicurezza del personale che interviene, ma comprendere direttive volte ad assicurare la incolumità delle potenziali vittime civili che i conflitti nazionalistici ed etnici hanno sempre provocato.
L’inadeguatezza degli strumenti a disposizione e le regole di ingaggio delle truppe Onu nella ex Jugoslavia e in Ruanda, furono infatti alla base dell’incontenibile violenza che permise indicibili brutalità ed eccidi. Quelli in corso in Libia e quelli di oggi in Siria, non sono certo impedibili con le dichiarazioni di buona volontà di chi condanna interventi militari a protezione di vittime indifese. Dichiararsi contro ogni guerra è giusto, ma c’è un ma, ed è relativo al fatto che non si può rimanere inerti ad osservare altri massacri di vittime civili indifese e abbandonate a se stesse, unicamente preoccupati per la sola propria coerenza di pacifisti.
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