Non è stata una "..spendida, spendida Copenaghen" come recita un’antica famosa canzone. I risultati operativi, concreti del vertice momdiale nella capitale danese sono stati un flop,una delusione. Se n’è fatto portavoce Desmond Tutu richiamando i rischi di catastrofe che inconbono sul continente africano se non si realizzano politiche di contenimento del rialzo di temperatura ben più incisive di quelle adombrate nel vertice.
La delusione, a parere di molti, non è una sorpresa. I capi di Stato non erano in grado di prendere decisioni impegnative dati gli scenari geopolitici ed economici mondiali.
Il solo risultato tangibile è la dichiarazione di principio contenuta nel documento finale: contenere il riscaldamento climatico entro i due gradi celsius, senza però precisare i mezzi per ottenerlo. E’ su questo limitato obiettivo che si è espresso con veemenza l’Arcivescovo sudafricano.
Ogni altra decisione, impegni su emissioni di CO2, sostegno ai paesi in via di sviluppo, è stata rinviata a 2010. Non sono stati messi in atto, e non sono per il momento previsti strumenti finanziari ad hoc. L’OME proposto dal presidente francese resta un’idea.
Ripetiamo. Non è una sorpresa. Le posizioni di partenza erano troppo distanti. Non dimentichiamo che solo un anno fa il Governo USA affermava che “ il problema riscaldamento climatico non esiste “. Opinione, purtroppo, assai diffusa negli Stati Uniti.
L’India da parte sua ha ribadito un’impostazione che non vale solo per i temi ambientali ma anche sociali: il diritto allo sviluppo comporta costi sociali. “ Abbiamo anche noi diritto alla nostra Manchester “ mi disse una volta un economista autodefinitosi realista. Si riferiva alla Manchester descritta da Engel nella condizione della classe operaia inglese dell’800.
Anche la Cina rifiuta, con un discorso analogo all’India, diminuzioni consistenti e meccanismi di controllo.
Posizioni lontane per consentire un accordo. I ricchi richiedono che vengano dimezzate le emissioni entro il 2050 ma imprecisi o riluttanti sulle quote da ridurre nel breve periodo.
Quali le ragioni del fallimento? Ne indichiamo schematicamente tre:
1 – tempi della politica. L’orizzonte temporale dei politici è il breve periodo. “ Quando saranno le prossime elezioni ?" “. Obama , ammirevole nella sua sincerità, pensava a quanto accadeva nel Senato del suo paese sulla riforma sanitaria in bilico nei giorni stessi di Copenhagen, e una crescente ostilità di ampi settori della pubblica opinione. Prendere decisioni a lungo termine non è facile. Ci vuole sostegno ampio nell’opinione pubblica, il non ostracismo di poteri forti, i media…E l’opinione pubblica è versatile ci si commuove (giustamente) per un orso in bilico su un pezzo di ghiaccio che si scioglie, l’immagine ha fatto il giro del mondo, ma…niente tasse! Nella TV americana la discussione di Copenhagen era sempre in coda. Prima gli acquisti natalizi. In quanto agli interessi forti…se si fa eccezione per i produttori di energie alternative, le voci sono assai flebili.
2 – Non c’è una governante mondiale. L’ONU ha giocato un ruolo forte nella denuncia e nella presa di coscienza dei rischi grazie al lavoro del gruppo esperti ma non ha potere. Si ripete la vicenda del lavoro minorile. Analisi, denunce precise da parte dell’OIL ,ma scarsi poteri di intervento.
3 – Ineguaglianze mondiali. I Paesi emergenti non vedono perché dovrebbero investire per ridurre le loro emissioni se il loro tasso di CO2 pro capite è molto inferiore a quello dei paesi ricchi a cui rimproverano, giustamente, di essere all’origine del problema. Quello che è vero a livello internazionale vale anche a livello locale. Chi abita in un modesto alloggio in una periferia urbana non vede perché pagare una carbon-tax quando i più agiati fanno shopping lussuosi approfittando del dollaro basso…
Pessimismo nero ?! Il rischio c’è ma : la sensibilizzazione si allarga e non solo nei paesi ricchi. La necessità di legare l’ecologico alla lotta per l’occupazione e contro le diseguaglianze, per produzioni diverse etc…è sempre più acuta. Uno dei programmi più interessanti di Obama sono appunto i “ green jobs”. Il ruolo della società civile è evidente e i sindacati potrebbero giocare un ruolo importante. Certo se si dice di sì a tutto, senza un progetto non stupiamoci delle delusioni.
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