LA DISUGUAGLIANZA, QUESTA SCONOSCIUTA – M.Dellacqua -Almanacco Mm-
La disuguaglianza, questa sconosciuta! Governi e forze politiche non sembrano molto preoccupati per le disuguaglianze. Quando non pensano esclusivamente alla loro salute, il loro impegno è divorato dalla ricerca dell'efficienza e dal conteggio dei risparmi.
L'ultimo numero di “MicroMega” in edicola capovolge lo stereotipo. Con gli interventi di economisti e studiosi di indiscussa levatura (tra i quali spicca il Premio Nobel Joseph Stiglitz) dice invece che all'origine della crisi stanno proprio le disuguaglianze e, senza aggredirle, non c'è ripresa della domanda e non si può pretendere via d'uscita. Il pensiero liberista sostiene invece che la disuguaglianza è il prezzo da pagare allo sviluppo: “meglio un sistema che consente a 'quasi tutti' di arricchirsi e pazienza se qualcuno sta molto meglio degli altri”.
Nell'Occidente dall'opulenza inceppata dei primi anni Ottanta lo ha detto la Thatcher con parole sue che hanno fatto epoca: “non esiste la società, esiste solo l'individuo e la sua famiglia”. Poi lo ha detto la Reganomics impegnata con la Trilaterale a liberarsi dal sovraccarico di democrazia: “l'economia di mercato è come l'alta marea che sospinge verso l'alto il peschereccio e lo yacht”. Nella Cina comunista, Deng Xiao Ping ha introdotto un vecchio motto appreso durante i suoi studi in Francia: “Arricchirsi è glorioso”.
Qualcuno, prendendo a prestito persino il Vangelo di Matteo (“a chi più ha, più sarà dato”), ha sentenziato che le disuguaglianze favoriscono la crescita dell'economia perchè il sostegno all'accumulazione e alla concentrazione assicura un effetto cascata da cui potrà sgocciolare (effetto “trickle down”) qualche risorsa di benessere e di occupazione verso le classi subalterne e i ceti medi, anche se la quota loro graziosamente riservata rappresenterà sempre una fetta più piccola della torta.
Purtroppo, però, alla prova dei fatti, la commovente generosità delle imprese non ha funzionato secondo il previsto. Salari più bassi (altrimenti detti “più flessibili”) hanno finito per indebolire la domanda e non la disoccupazione. La globalizzazione ha messo in competizione diretta tra loro i lavoratori di tutto il mondo: un miliardo di lavoratori garantiti dell'Occidente industrializzato è stato scagliato contro altri due miliardi (p.11) e sottoposto alla quotidiana minaccia: o ottenete dai governi una riduzione delle tasse per le imprese o porteremo le fabbriche dove il prelievo fiscale ci è più favorevole.
E mentre l'economia va sempre peggio, “l'1 per cento più ricco degli individui detiene circa il 40 per cento della ricchezza mondiale” (p.33) e le 358 persone più ricche al mondo nel 2002 “hanno una ricchezza pari a quella del 45 per cento più povero della popolazione mondiale” cioè circa 600 milioni di persone. In Italia “ogni ricco ha il reddito di cento poveri” (p.42) e “il 10 per cento possiede quasi il 45 per cento della ricchezza totale” (p.47).
L'alternativa non può essere la bolla tecnologica o la bolla immobiliare che ci hanno già sprofondato negli attuali guai, ma la leva della spesa pubblica e le politiche redistributive del lavoro e dei redditi. Il buon esempio del Brasile che investirà le sue risorse petrolifere nell'istruzione e pagherà un sussidio alle madri solo se i figli vanno regolarmente a scuola, non è meccanicamente esportabile. Però, osserva Giovanni Perazzoli, il reddito minimo garantito, in tutta Europa è diffuso con modalità diversificate, ma accomunate da poche decisive caratteristiche: sono misure non discrezionali, sono illimitate nella durata, sono legate dalla disponibilità a cercare ed accettare un lavoro e vincolate ad una condizione patrimoniale che giustifichi l'intervento di sostegno.
In Italia no. Se fossi una banca ti avrebbero già salvato, sembra dire la denuncia sferzante di Vladimiro Giacchè rigorosamente impegnato ad argomentare la sua proposta di nazionalizzare il Monte dei Paschi. Ma se sei un esodato, un miliardo e mezzo non si trova. Nel frattempo, l'elaborazione di un programma alternativo è impigliato nel contrasto fra Pietro Reichlin e Sergio Cesaratto.
Il primo sostiene che uno stato invasivo crea dipendenza, incentiva le persone a trascurare la ricerca di un lavoro e allontana l'individuo dalla doverosa responsabilità di concorrere al benessere sociale, mentre ciascuno deve sopportare le conseguenze delle sue stesse scelte.
Il secondo ribatte che non si può ragionare come se in Italia ci fosse la possibilità di una piena occupazione rifiutata dall'inclinazione parassitaria dei lavoratori: povertà e disoccupazione non sono la colpa del pigro, ma un ostacolo involontario che si rimuove dal lato dell'offerta, perchè i bassi tassi di attività dipendono dalla mancanza di lavoro, non dalla mancanza di incentivi.
Una lettura avvincente idealmente completabile con gli interventi di Nicola Cacace che, frequentemente, su “L'unità” ci ricorda come “nella società globale della conoscenza, le diseguaglianze sociali portano alla povertà collettiva. Guardate al Pil procapite e scoprirete che i paesi a più alta eguaglianza sono diventati anche i più ricchi del mondo”.
Mario Dellacqua
Per leggere il sommario dell’almanacco dell’economia:
MicroMega, 3/2013, almanacco di economia, Rivista bimestrale, euro 15.
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