35 giorni alla Fiat trent’anni dopo. Si sono svolte nelle scorse settimane numerose serate celebrative del 30° anniversario della lotta dei 35 giorni alla Fiat. Ho inviato questo testo ai miei amici rifondaroli pinerolesi che hanno organizzato il 22 ottobre scorso un incontro cui hanno partecipato, tra gli altri, Marco Scavino e Pietro Passarino. Durante un’assemblea a Mirafiori, Angelo Azzolina ( delegato delle Carrozzerie) disse che di lì a 15 anni alcuni operai non avrebbero saputo che cosa raccontare ai loro figli. Mi rafforzò nella convinzione che stava capitando qualcosa di decisivo.
Perciò ogni tanto mi sentivo autorizzato ad imprimere ai miei discorsi un tono meno sindacale e politico, ma più solenne e severo. Così inciampai in una gaffe clamorosa che ancora adesso mi brucia. Si sentiva puzza di bruciato. Mentre i presidi si indebolivano, gruppi di impiegati e capisquadra cominciarono a insidiare i picchetti e a provare i primi cortei di protesta. Presi la parola durante un’assemblea e dissi che tutti eravamo troppo nervosi. Anche nelle nostre famiglie serpeggiava l’inquietudine. Litigavamo per un niente e più del solito tra moglie e marito. I figli ne risentivano. Dovevamo dialogare con gli operai stanchi di non vedere uno sbocco, anche con quelli che volevano mollare. E gli impiegati non potevamo trattarli “come ebrei”. Fine dell’intervento.
Al termine dell’assemblea mi avvicina un tappetto di operaia più ragazzina di me (allora avevo 27 anni) che appena le sono a tiro solleva il dito ammonitore: io sono ebrea e quel paragone te lo potevi risparmiare. Arrossii di vergogna e chiesi scusa perchè con tutte le mie buone intenzioni avevo torto marcio e chissà da dove veniva quel mio deposito di antisemitismo. Però l’episodio spiega che le nostre comunità operaie venivano sconfitte non solo dalla protervia padronale, ma anche dall’isolamento sociale nel quale ci eravamo cacciati.
Poteva andare a finire diversamente?
Sempre può finire in un altro modo. Molti di noi interpretarono quella lotta come la resa dei conti fra antagonisti e moderati, fra combattenti e traditori.
Molti di noi ripetevano che “la crisi era voluta” come se il sistema potesse funzionare benissimo, a condizione che Agnelli riuscisse a fermare l’accordo Alfa-Nissan agitando lo spettro dei licenziamenti come arma di pressione sul potere politico.
Molti di noi pensavano fosse possibile tenere in vita il profitto e nello stesso tempo dissanguarlo con la moltiplicazione di una conflittualità che non discuteva il modello di sviluppo e le finalità della produzione. Molti altri ripetevano che la soluzione c’era. Invece non c’era.
Non dico che avremmo potuto fermare le ristrutturazioni organizzative e la caduta dei posti di lavoro nell’industria dell’auto.
Oggi non derido più Giorgio Benvenuto per aver detto: o la Fiat molla o molla la Fiat. Può capitare a tutti di dover mollare.
Ma un po’ prima di quindici anni dopo, il nostro sindacato avrebbe dovuto dire che quell’accordo non era un accordo, ma la ratifica di una decisione aziendale che non riuscivamo a contrastare. Così non si sarebbe colpito a morte il rapporto di fiducia fra rappresentati e rappresentanti. L’esito di quella lotta mi graffiò e mi lasciò l’animo ciecamente esacerbato per molto tempo.
Grazie ai miei amici rifondaroli pinerolesi per avermi dato l’opportunità di mettere un disordine nuovo nei miei pensieri.
Mario Dellacqua
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