I.A. e ansia da sostituzione

Tito Boeri, nell’editoriale della rivista Eco di Agosto, numero 5, riflette su “Contro l’ansia da sostituzione” e così inizia « L’intelligenza artificiale suscita ansie da sostituzione, evoca scenari in cui l’uomo viene soppiantato dalle macchine. In realtà, il suo contributo alla crescita economica e al nostro benessere in generale sarà tanto più forte quanto più le nuove tecnologie sapranno essere  complementari al lavoro umano. Dipende da noi farle evolvere in questa direzione. È un compito che pone sfide senza precedenti. Ma tutt’altro che impossibile…»  e prosegue

Tutti parlano di intelligenza artificiale (IA), ma pochi sanno davvero di cosa si tratta.

Per questo fin dal primo numero di Ecoabbiamo voluto riservare una rubrica a chi davvero ci capisce qualcosa, a scienziati informatici, ingegneri elettronici e fisici teorici in grado di spiegare in parole semplici l’oggetto di tante attenzioni. Ci hanno sin qui chiarito che l’intelligenza artificiale generativa, quella in grado di produrre testi e immagini e di risolvere problemi complessi, funziona in modo molto diverso dai cervello umano. Al punto che viene da chiedersi se il nome “intelligenza artificiale” sia una geniale (e umana) invenzione di marketing per valorizzare dei super-computer che navigano a velocità mai prima sperimentate sulla rete sfruttando la gran mole di informazioni qui disponibili.

L’immagine a pagina 3 di questo numero di Eco è stata prodotta da ChatGPT4o cui abbiamo chiesto di autorappresentarsi, più precisa- mente di fornire un’immagine dell’intelligenza artificiale generativa. Come vedete, non è certo l’immagine di un cervello umano. Eppure, si intravvede un nucleo centrale, un hardware, a livello sottocorticale e diversi fasci di luce, assoni-like, attraverso cui dovrebbe correre l’impulso elettrico che proietta a una sorta di corteccia cerebrale. Quindi l’equivoco rimane. Forse perché per capire le differenze fra l’intelligenza umana e l’intelligenza simulata dovremmo prima riuscire a capire meglio i meccanismi alla base dei nostri ragionamenti e, come ci ricordava Tomaso Poggio sul numero di giugno di Eco (v.allegato) , i progressi negli ultimi anni sono stati più nell’ingegneria elettronica che nelle neuroscienze.

Quale impatto avrà su tutti noi? Il progresso tecnologico non è qualcosa cui assistere  passivamente

Quando parliamo di intelligenza artificiale ci interessa però soprattutto sapere qua­le impatto avrà sulle nostre vite, sulle interazioni sociali, sull’economia, sul lavoro, sulla salute, sull’informazione e sul funzionamento delle nostre democrazie. Sono  quesiti che inquietano molti, generando ansie da “sostituzione”, scenari in cui l’uomo viene soppiantato dalle macchine. Del resto, di pessimismo tecnologico è lastricata la storia dell’umanità. Molte predizioni catastrofiche sulle conseguenze delle nuove tecnologie si sono, alla prova dei fatti, rivelate infondate. La fine del lavoro soppiantato dalle macchine è stata decretata centinaia di volte. Eppure, nelle economie di tutto il mondo si continuano a generare milioni di posti di lavoro e il tasso di occupazione (il rapporto fra occupati e popolazione in età lavorativa) è stato pressoché ovunque in crescita sia nel corso del XX secolo che all’inizio di questo. Anche la disoccupazione è ai minimi storici in molti paesi. Ma le nuove frontiere del progresso tecnologico stanno ridefinendo il nostro modo di lavorare molto più che in passato.

Le macchine non sono soltanto in condizione di sostituire l’uomo in attività ripetitive, di routine, ma anche in mansioni e professioni intellettuali. Compiti che un tempo erano appannaggio esclusivo dell’uomo, come scrivere, tradurre, disegnare, produrre video, possono essere svolti da macchine anziché da persone. E si teme che invece di essere noi a guidare questi sviluppi e a utilizzarli per elevare la qualità del nostro lavoro, siano gli algoritmi a prendere il sopravvento, a decidere loro per noi in direzioni svantaggiose per l’umanità. Si teme che si arrivi alla creazione di entità super-intelligenti che hanno valori non allineati con quelli degli esseri umani, come HAL 9000, il computer di bordo di 2001 Odissea nello Spazio.

Il dovere di governare il cambiamento

Per valutare il fondamento di queste preoccupazioni diffuse non potevamo rivol­gerci solo a scienziati informatici, ingegneri elettronici o fisici teorici perché la va­lutazione dell’impatto futuro dell’intelligenza artificiale richiede competenze che vanno ben oltre questi orizzonti disciplinari. Abbiamo perciò interpellato scienziati sociali che si sono dedicati da tempo a questi temi, lavorando a stretto contatto con chi è alla frontiera della ricerca sull’IA. Come vedrete, i testi che hanno scritto per noi non offrono tesi univoche, ma piuttosto scenari alternativi. Ci sono molti “se”, molti “dipende”. Sappiamo che sarebbe molto più rassicurante non avere questi periodi ipotetici e capiamo la delusione dei lettori che non troveranno in queste pa­gine una visione definitiva sul futuro dell’IA. Ma nessuno è in grado di dispensare certezze sugli sviluppi futuri di tecnologie per loro natura duali, nel senso che pos­sono trovare applicazioni le più disparate sia in campo civile che militare. E poi gli scenari alternativi, i “se”, i “dipende” a loro modo ci danno una risposta. Ci dicono che l’impatto futuro dell’intelligenza artificiale dipende da noi, da come riusciremo a gestire il progresso tecnologico, a indirizzarlo verso obiettivi condivisi, minimizzan­done eventuali effetti indesiderati e ponendovi per tempo rimedio. In altre parole, il progresso tecnologico non è qualcosa cui assistere passivamente. Siamo noi a disegnarlo, a indirizzarlo. Forse mai come in questo momento c’è un ruolo per i go­verni, nell’indirizzare la ricerca, nel ridurre la concentrazione del potere economico data dall’accesso esclusivo a immense banche dati, l’abuso di posizioni dominanti e nel sanzionare utilizzi perversi dell’intelligenza artificiale.

Il problema è come farlo. Dovremmo giocare d’anticipo, come sembra aver volu­to fare l’Europa con Y Arti fidai Intelligence Act, di cui abbiamo trattato nel secondo numero di questa rivista (v.allegato), introducendo regole restrittive anche a costo di soffoca­re lo sviluppo dell’IA? Oppure consapevoli della velocità dei cambiamenti in atto e del fatto che le invenzioni sono per definizione imprevedibili, dovremmo prepararci a intervenire a cose fatte per sanzionare eventuali comportamenti devianti? Se si sceglie la seconda strada, bisogna attrezzarsi per intervenire rapidamente cercan­do di rendere l’adozione dell’intelligenza artificiale un processo reversibile nel caso qualcosa andasse storto.

C’è poi un secondo problema, non meno intricato, di giurisdizione. Chi può regolare l’IA o sanzionare le sue applicazioni indesiderabili? Chi ha autorità per intervenire generalmente opera su scala nazionale oppure di blocco regionale (Europa, Stati Uniti), ma qui abbiano a che fare con attori che si muovono su scala globale. Pensiamo, per esempio, all’esportazione di tecnologie di riconoscimento facciale operata dalla Cina verso regimi totalitari, che documentiamo in questo numero. Cosa si può fare per impedire che MA venga utilizzata per soffocare ogni anelito democratico in regimi dittatoriali? Non è un rischio solo teorico. I regimi autocratici hanno aumentato le importazioni di queste tecnologie cinesi nei periodi in cui l’opposizione interna era particolarmente agguerrita. Forse solo restrizioni al commercio globale messe in atto a livello multilaterale possono impedire – o comunque fortemente ridurre  questo tipo di transazioni. (…)

Tito Boeri prosegue con altri tre capitoli:

  • Il contributo dell’IA alla crescita economica
  • Gli algoritmi e le grandi piattaforme
  • L’apprendimento profondo richiede elevati consumi di energia

E conclude con questo richiamo « Necessario continuare a investire nell’intelligenza umana Vero che le informa­zioni processate dall’IA circolano molto più rapidamente che nel cervello umano (si parla di 10 millesimi di secondo anziché 100 millesimi di secondo per compiti semplici), ma le potenzialità di quel misterioso groviglio di neuroni che è il nostro cervello sono ancora in gran parte sconosciute. L’errore più grave che possiamo commettere in questo momento è pensare che l’intelligenza artificiale riduca la ne­cessità di investire nell’intelligenza umana e nelle neuroscienze.» In allegato il testo completo

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