La prima repressione si fa nelle strade
La Costituzione della Repubblica Italiana è la legge fondamentale dello Stato italiano e occupa il vertice della gerarchia delle fonti nell’ordinamento giuridico della Repubblica. Approvata dall’Assemblea Costituente il 22 dicembre 1947 e promulgata dal capo provvisorio dello Stato De Nicola il 27 dicembre seguente, fu pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 298, edizione straordinaria, dello stesso giorno, ed entrò in vigore il primo gennaio 1948. Consta di 139 articoli e di 18 disposizioni transitorie e finali.
Articolo 21 – Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. (…)
Intervista al costituzionalista Gustavo Zagrebelsky di Serenella Matera – La Repubblica 26-2-24
“Così iniziano i regimi. Con il premierato sarà anche peggio” – La Costituzione tutela il diritto a manifestare senza autorizzazioni Il governo la ignora. Ci si mobiliti contro involuzioni autoritarie. – Intimidazione agli studenti e repressione (per ora) tiepida. Nella loro democrazia del vincitore lo strumento è il manganello.
«Questo proliferare di cariche e manganelli, questo clima di repressione per ora tiepida, diffondono un senso di insicurezza. Alle mie figlie e nipoti, se avessero l’età di quei ragazzi di Pisa, sentirei la responsabilità di dire di pensarci due volte prima di scendere in strada. Ma così si comprime un diritto, si diffonde una cattiva aria. Il diritto a manifestare è il primo ad essere colpito nei regimi autoritari. In Russia, in Afghanistan, in Iran, in certi regimi islamici, nei Paesi golpisti del Sud America, la prima repressione si fa nelle strade». Il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Consulta, è molto colpito dalle scene di violenza sugli studenti toscani.
«Con i ragazzi i manganelli esprimono un fallimento», ha detto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
«Un intervento non consueto. Non ricordo un precedente tanto netto, un tanto chiaro richiamo ai principi della convivenza civile e ai principi costituzionali. Non è un caso di moral suasion, è una presa di posizione ufficiale che, per quel che vale, ha la mia condivisione totale. Mi ha inquietato che abbia dovuto intervenire il presidente della Repubblica».
Si riferisce al silenzio della presidente del Consiglio Meloni?
«Mi sarei aspettato che le prime reazioni indirizzate a ricordare i limiti e la funzione della polizia, venissero dal governo, responsabile della corretta gestione dell’ordine pubblico. Dalla presidente del Consiglio e dai due ministri più strettamente coinvolti, il ministro della Giustizia Carlo Nordio e il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi».
Piantedosi, nell’occhio del ciclone, rivendica di dover mantenere l’ordine pubblico, sua competenza.
«Competenza e responsabilità. Ma quale ordine pubblico? Una cosa è l’ordine pubblico dei regimi autoritari, che è l’ordine nelle strade. Altra cosa è l’ordine pubblico nella Costituzione, che non è repressione ma garanzia dell’ordinato sviluppo delle libertà costituzionali. Brutto segno che abbia dovuto ricordarglielo il presidente della Repubblica. Mi pare che vari ministri non conoscano la Costituzione e neanche certi prefetti e questori, e spesso neanche i giornalisti che parlano di manifestazioni non autorizzate».
Sta sostenendo che a prevalere è la libertà di scendere in piazza?
«L’articolo 17 della Costituzione dice che tutti i cittadini hanno il diritto di riunirsi, a condizione che la riunione sia pacifica e senz’armi. È sotto il fascismo che occorreva l’autorizzazione dell’autorità pubblica: l’esercizio dei diritti allora era subordinato al beneplacito del governo. La nostra Costituzione non prevede alcuna autorizzazione: delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato semplicemente un preavviso alle autorità. Il preavviso non è la richiesta di un’autorizzazione. Il principio è il diritto, l’eccezione è il divieto che può essere disposto eccezionalmente solo con provvedimento motivato in relazione a “comprovati” motivi di sicurezza o incolumità pubblica».
Il ministro dell’Interno fa sapere che la polizia voleva proteggere la sinagoga a Pisa e il consolato Usa a Firenze, luoghi sensibili. Non è un argomento valido?
«Luogo sensibile può essere qualsiasi cosa, una strada, un cimitero, un’ambasciata, una sede di partito o di sindacato. Ci sono naturalmente luoghi in certe circostanze storiche più esposti alla violenza, come lo sono in questo momento quelli evocativi del conflitto in Medio Oriente. Ma in questi casi si giustifica non il divieto della manifestazione, bensì la disciplina, anche rigorosa, delle modalità di svolgimento: gli organizzatori devono dare un preavviso, che serve all’autorità per predisporre le misure necessarie all’esercizio pacifico del diritto a manifestare. Solo quando ciò non è possibile si può disporre il divieto».
E se gli organizzatori non danno il necessario preavviso?
«La violazione dell’obbligo di preavviso comporta sanzioni soltanto a carico dei promotori e non anche di chi partecipi pacificamente alla manifestazione. Tale partecipazione – cito una sentenza della Corte costituzionale, la n. 90 del 1970 – “si risolve nel concreto esercizio di un diritto costituzionalmente protetto”. E invece non solo questi ragazzi hanno incontrato un abuso del diritto da parte dello Stato, ma sono incorsi direttamente nella sanzione di una manganellata. È stato un episodio poliziesco. L’autorità di pubblica sicurezza non è lì per reprimere ma per garantire l’esercizio di quello che è un diritto, fino a quando in concreto, non ipoteticamente, non trasbordi in violenza».
Come si spiega dunque quelle manganellate agli studenti?
«Non ne capisco la ragione, se non in termini di intimidazione. Finora per nostra fortuna non c’è stato alcun episodio che abbia provocato ferite gravi o addirittura mortali. Ma questa violenza per ora tiepida, ma che può surriscaldarsi, diffonde un senso di inquietudine e insicurezza. Non voglio fare fastidiose citazioni. Ma un grande saggio del passato ha detto che la libertà consiste precisamente nella sicurezza dei propri diritti».
La sicurezza dei diritti è compressa anche dalle identificazioni? Con la polizia che chiede i documenti al loggionista antifascista della Scala o a chi depone fiori per Navalny.
«In sé per sé, l’identificazione può essere un’utile misura di prevenzione e repressione dei reati. Ma diventa un problema quando è ‘mirata’ e suscita il sospetto che serva ad altri fini».
Piantedosi obietta: anche io sono stato identificato.
«Sembra che dica ‘che male c’è?’ Ma, l’identificazione non finisce mica lì. Chi viene identificato è schedato, incasellato in un rapporto di polizia. E la schedatura, che si può fare intercettando le telefonate o controllando gli spostamenti e la partecipazione a manifestazioni pubbliche, accresce, insieme alle manganellate, il clima di apatia che sempre piace a tutti i regimi illiberali».
Insomma, le ragioni di ordine pubblico servono a giustificare la limitazione del dissenso?
«Rendono difficile ciò che la Costituzione vorrebbe fosse facile. E in questo senso si può parlare di limitazione». Siamo su un crinale pericoloso? «La domanda che è lecito porsi è: quel che accade è un rigurgito di cose del passato o il preludio a qualcosa del futuro? Nessuno di noi è profeta, ma ciascuno di noi ha la sua parte di responsabilità nei confronti del futuro. Se questi episodi si ripeteranno e se si è in quella parte del popolo italiano, io penso maggioritaria, che vuole evitare di imboccare la strada di involuzioni autoritarie, è buona cosa che ci si mobiliti. Manifestare per poter manifestare. Mi pare che qualcosa stia già accadendo».
Salvini le risponderebbe: “Noi stiamo con i poliziotti”.
«È inquietante il ‘sempre e comunque’ che accompagna queste professioni di fede. Tutti siamo con la polizia quando difende i diritti costituzionali ma, nello stato democratico, esiste la necessità di controllare chi esercita poteri di qualunque tipo essi siano. ‘Sempre e comunque’ ciecamente con qualcuno, mai».
È ancora convinto che la riforma del premierato di Meloni voglia portarci verso il modello Orbán?
«Quella riforma costituzionalizzerebbe un’idea di democrazia del vincitore e del vinto. Il vincitore si può facilmente considerare abilitato a usare tutti gli strumenti della vittoria. Quale più classico del manganello?».
ARTICOLO CORRELATO – Massimo Colaiacomo in “ L’uomo che smascherò i fascismi”, su La Repubblica, ricorda la lezione di George Lachmann Mosse, docente di storia nelle Università di Madison e di Gerusalemme, che nel 1974 scrisse “La nazionalizzazione delle masse” . Mussolini e Hitler hanno distrutto la democrazia per via democratica, attraverso le elezioni. Mosse individua due fattori all’origine dei totalitarismi: la manipolazione della tradizione, attraverso il recupero di simboli, lessico, favole popolari e liturgie che laicamente si sovrappongono alla tradizione religiosa cristiana; l’esigenza di rompere tutti i filtri formali, procedurali e istituzionali che impediscono il rapporto diretto fra il capo e il popolo, fino allora impedito dalle élite in quanto custodi dei valori “borghesi”. «Milioni di persone videro nelle tradizioni di cui parlava Mussolini – scrive Mosse – una possibilità di partecipazione politica più vitale e più significativa di quella offerta dall’idea “borghese” di democrazia parlamentare, e questo poté succedere solo perché esisteva una lunga tradizione rappresentativa non solo dei movimenti di massa nazionalisti, ma anche dei movimenti di massa dei lavoratori». Da questa forma di sedazione collettiva delle coscienze si arriva agevolmente all’annullamento dell’identità individuale.(…) per proseguire aprire l’allegato
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