Controcorrente
Il giudice Angelo Pellino in merito alla sentenza su “trattativa mafia-stato”, emessa dalla Corte d’assise di Palermo, che capovolge la sentenza di primo grado, ha compiuto una scelta controcorrente rispetto al pensiero prevalente amdato in onda e sui media in questi anni. Enrico Deaglio, scrittore e giornalista autore di reportage e pubblicazioni molte anch’esse controcorrente – vedi https://it.wikipedia.org/wiki/Enrico_Deaglio – in “Il pensiero unico fatto di nulla ha creato l’idea della trattativa pubblica “, su Domani, ricostruisce questa oscura vicenda italiana, puntando il dito contro i creatori di tale pensiero.
Così inizia. Il giudice Angelo Pellino ha smontato la nebulosa oscura su cui si basava il sospetto dei rapporti tra la mafia e lo stato. Questa teoria era diventata anche un businnes che ha fatto la fortuna del Movimento 5 stelle. Vorrei dire grazie al giudice Angelo Pellino, presidente della Corte d’assise d’appello di Palermo. Grazie per avere dissolto quella nebulosa oscura che aveva preso il nome di “trattativa stato-mafia”, ed era poi diventata un’entità, distillata dai suoi sacerdoti.
Così inizia. Il giudice Angelo Pellino ha smontato la nebulosa oscura su cui si basava il sospetto dei rapporti tra la mafia e lo stato. Questa teoria era diventata anche un businnes che ha fatto la fortuna del Movimento 5 stelle. Vorrei dire grazie al giudice Angelo Pellino, presidente della Corte d’assise d’appello di Palermo. Grazie per avere dissolto quella nebulosa oscura che aveva preso il nome di “trattativa stato-mafia”, ed era poi diventata un’entità, distillata dai suoi sacerdoti. Il giudice Pellino ha assolto i rimanenti imputati di una messa in scena durata 12 anni (o meglio, quasi 30, come vedremo); la “trattativa” è stata un insulto pervicace (e sadico) alla memoria di Falcone e Borsellino operato dai suoi colleghi magistrati, una palestra per ambizioni politiche, per fortuna in genere fallimentari; e, soprattutto la creazione di una “narrazione” (brutto termine, lo so, ma efficace), che dice che lo stato e la mafia sono la stessa cosa, argomento che ha fatto il successo del partito di Beppe Grillo e del giornalista Marco Travaglio. Grazie, giudice Pellino, di aver messo uno stop a tutta questa schifezza.
E prosegue. Se c’è una cosa che contraddistingue i fatti di mafia, è che nessuno — intendo le persone normali — ne capisce niente, e soprattutto non ne vuole sapere; e nello stesso tempo, per il numero di morti che questo fenomeno ha provocato in Italia, decine di migliaia di persone, più o meno, ci hanno avuto direttamente a che fare. Per cui, in casi come questo, due approssimazioni si sommano creando un rumore di fondo piuttosto fastidioso. Cerco quindi di riassumere sull’argomento di cui sto parlando, una specie di “mafia for dummies” (ndr “mafia per principianti”). Dunque, succede che tra gli anni Ottanta e Novanta l’Italia stava per diventare un “narcostato”. L’economia criminale, spinta dal monopolio del commercio di eroina, era di gran lunga più profittevole di quella legale (a cui peraltro la prima prestava molti soldi); l’assetto politico era stato distrutto dalla corruzione, quello finanziario, soprattutto quello cattolico, vedeva ogni giorno una possibile bancarotta. Dopo un decennio di tensioni economiche finanziarie, il patatrac avviene nel 1992 con le uccisioni spettacolari di Falcone e Borsellino (roba mai vista prima al mondo, se non nel Padrino III, film molto anticipatorio che vi invito, depurato delle melensaggini, a riconsiderare). Seguono bombe “in continente” per tutto il 1993, un attacco diretto dei servizi segreti al presidente Scalfaro, che reagisce ordinando, in qualità di capo delle forze armate, manovre dell’esercito; poi la cosa si placa, l’Italia va pazza per un uomo nuovo che vince le elezioni e comincia la seconda repubblica in cui, per fortuna, alméno quello ci viene dato: la mafia non c’è più. Tutto il peso di spiegare che cosa sia successo ( e sono successe cose terribili: cadaveri eccellenti e bambini sciolti nell’acido solforico) cade sulle spalle della magistratura, della polizia, dei carabinieri e dei servizi segreti. La politica, apparentemente, non sembra interessata. E i magistrati, ognuno dei quali ha giurato di portare avanti gli insegnamenti di Falcone e Borsellino (non piegare la schiena, trovare i riscontri, e follow the money), sono gli eroi del momento, tutti si fidano di loro.(…) per proseguire aprire l’allegato
Armando Spataro, giudice in pensione, in ” Trattativa Stato-mafia, le accuse che spiegano la sentenza“, su La Repubblica, scrive. Come era prevedibile, la sentenza della II Corte d’Assise di Appello di Palermo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia ha generato opposti commenti. In attesa delle motivazioni, è bene discuterne con freddezza, comunque nel rispetto di quanti si sono impegnati per far emergere la verità sulla “zona grigia” che spesso ha caratterizzato i rapporti tra mafia e istituzioni. Il dibattito post sentenza, però, è caratterizzato da una grave lacuna preliminare, l’omessa conoscenza dei capi di imputazione. Infatti, coloro che la criticano affermano che se la trattativa tra mafia e istituzioni c’è stata (“il fatto sussiste“) non sarebbe accettabile che siano stati condannati solo i mafiosi affiliati ed invece assolti gli ex alti ufficiali dei Carabinieri (“perché il fatto non costituisce reato”), essendone stati, gli uni e gli altri, gli attori.
Ma proprio qui sta l’errore: la contestazione in sede penale non è quella di avere dato luogo ad una trattativa – reato non previsto dal nostro codice penale – ma di avere tutti, in concorso tra loro ed a partire dal 1992, minacciato esponenti politici e delle istituzioni, prospettando stragi ed altri gravi delitti, per condizionare la regolare attività del governo e di altri corpi politici. Il tutto con varie aggravanti, tra cui quella di voler avvantaggiare Cosa nostra, avvalendosi della sua forza intimidatrice. Tale minaccia, prevista e punita dall’articolo 338 del Codice penale, è descritta in circa quattro pagine di capi di imputazione fin troppo articolati, sicché la sintesi qui proposta non è certo esaustiva, ma basta a porsi una precisa domanda: se il reato è facilmente configurabile per i vari boss mafiosi, che hanno minacciato e commesso gravi delitti, in particolare le stragi del 1992 e del 1993, per ottenere dalle istituzioni alcuni vantaggi, quali la revisione del cosiddetto maxiprocesso a carico dei componenti della “cupola” o del “carcere duro” previsto dall’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario, si può pensare che pubblici ufficiali ed esponenti politici approvassero tali condotte minacciose e si proponessero gli stessi fini, anche per rafforzare il potere mafioso?
Questo, infatti, integra il concorso in quel reato, il che appare assolutamente illogico, quasi surreale. È certo possibile, invece, che alcuni ufficiali dei carabinieri, a fronte di una lunga stagione di delitti mafiosi (risalente già agli anni Ottanta) nel corso della quale era drammaticamente emersa l’incapacità dello Stato di prevenire tali crimini, abbiano ritenuto di dover contattare uomini collegati a Cosa nostra per capire quali fossero le condizioni poste dall’organizzazione criminale per interrompere quella serie di sanguinose aggressioni (salvo poi verificare se tale iniziativa sia stata decisa autonomamente o sollecitata da uomini politici, anche di governo).
Questo, però, non può integrare una condotta di concorso nel reato, ma semmai scelte e prassi investigative politicamente ed eticamente censurabili, tali da suscitare reazioni simili a quelle che, ad esempio, divisero il Paese in occasione delle trattative tra Stato e Br durante il sequestro Moro o quello del giudice Sossi. (…) per proseguire aprire l’allegato
Marco Travaglio in “La legge del Dipende”, su il Fatto Quotidiano, non si sofferma su quanto sottolinea Armando Spataro a proposito di reato, non reato, fatto politicamente discutibile, e controbbatte con il suo noto piglio, iniziando così. Per la serie “La sai l’ultima?”, la sentenza d’appello sulla trattativa Stato-mafia conferma integralmente i fatti, ma condanna solo la mafia e assolve lo Stato. E così afferma un principio che sarebbe perfetto per l’avanspettacolo, un po’ meno per il diritto penale: trattare con lo Stato è reato, trattare con la mafia non è reato. Sarà avvincente, fra tre mesi, leggere le motivazioni
della Corte d’assise d’appello di Palermo. Ma lo sarebbe ancor più poter assistere alla loro stesura, cioè vedere i giudici che mettono nero su bianco questa trattativa asimmetrica con la Legge del Dipende: è reato solo per i mafiosi da un lato del tavolo e non per i carabinieri e i politici dall‘altro: più che una trattativa, una commedia (anzi una tragedia) degli equivoci. (…) per proseguire aprire l’allegato.
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