Non sono un vecchio leone, al massimo un vecchio gatto, e dal 1981 non sono più iscritto al sindacato, da quando fui espulso dalla fabbrica (la Fiat) assieme ad altre migliaia di lavoratori. Prima, per 10 anni ero stato militante fim-cisl e rappresentante sindacale degli impiegati di Mirafiori. Per questa ragione chiedo ospitalità sul vostro sito, per provare a fare una riflessione su quella che secondo me fu una delle linee portanti, soprattutto della fim, dell’azione sindacale in quegli anni. e che adesso, e non solo da adesso, viene messa in discussione da parte del governo, ma , mi sembra, anche da ampie parti del sindacato.
Mi riferisco al concetto di egualitarismo, non elaborato a tavolino dai vertici sindacali della categoria, ma fatto proprio dal sindacato perché presente alla base e rivendicato dalla parte più cosciente dei lavoratori.
Tra gli operai, ed in misura minore anche tra gli impiegati, specialmente negli uffici amministrativi a prevalenza femminile, dove più alto era lo sfruttamento e l’autoritarismo aziendale, era ben presente l’idea che molto spesso le differenze di salario e di categoria erano strumenti di divisione, introdotti per rendere più deboli i lavoratori nei confronti dell’azienda.
Era abitudine degli impiegati tener celata la busta paga ai colleghi perché c’era il detto “chi fa vedere i soldi fa vedere il culo”. Aveva fatto scandalo la mia abitudine di lasciare la busta,vuota naturalmente, sulla scrivania a disposizione di chiunque volesse vedere il mio stipendio.
Tutta l’azione sindacale, in quel periodo, ebbe come sfondo questa idea, che se si lavorava tutti nello stesso luogo, nelle stesse condizioni e si contribuiva tutti a costruire lo stesso prodotto, occorreva andare verso una riduzione delle differenze di trattamento.
Nacque in quel periodo l’inquadramento unico operai impiegati, il passaggio automatico al 5° livello per gli impiegati, l’aumento uguale per tutti nelle vertenze contrattuali ecc..
Avremmo voluto andare anche oltre, ma naturalmente un conto è ciò che si vorrebbe ottenere, un altro quello che si ottiene.
Ricordo che un grande militante, cislino doc, Mario Gheddo, in una riunione del consiglio di settore enti centrali, al quale entrambi appartenevamo, fece un intervento, all’inizio degli anni ’70, in cui andò anche oltre l’egualitarismo e pur riconoscendo lui stesso che ancora non era maturo il tempo per la proposta che stava per fare, auspicava che venisse remunerato meglio chi svolgeva un lavoro più dequalificato, perché chi aveva un lavoro con contenuti professionali maggiori, aveva già in tale lavoro una soddisfazione psicologica e morale che lo compensava di un minor riconoscimento materiale.
A distanza di quasi quarant’anni, parlare di egualitarismo è quasi un’eresia, anche in molte parti del sindacato, e molte voci compongono il coro che attribuisce a quel poco egualitarismo rimasto nei luoghi di lavoro, la colpa della inefficienza dei servizi ed il basso livello di produttività delle nostre aziende.
Vorrei chiarire che il popolo di sinistra, che aveva tra i suoi slogan “chi non lavora non mangia” non era né tenero né tollerante verso gli assenteisti o i laureati in scienze mutualistiche, e se questi c’erano, e c’erano, non erano certamente i compagni.
Andare verso una logica egualitaria significava togliere ai capi il potere di premiare i ruffiani, di far fare carriera non a chi lo meritava ma a chi non dava fastidio e non rappresentava per il capo un possibile concorrente per futuri avanzamenti.
Le persone brillanti e indipendenti facevano paura , meglio circondarsi di mediocri.
Naturalmente questo vale in generale, non rappresenta certo ogni singola situazione.
Oggi, comunque, ci dicono, da destra ma non solo, che l’egualitarismo uccide la voglia di impegnarsi, che favorisce i fannulloni ed in ultima analisi penalizza i migliori.
Mi verrebbe da dire che chi si impegna solo per un maggior guadagno o per una più rapida carriera non è il migliore ma solo un arrivista ambizioso, perché chi ha una concezione eticamente alta della vita si impegna innanzitutto perché sente che questo è il suo dovere e non per altri motivi.
Il problema è sempre lo stesso: in base a quale criterio si assegnano i punti di merito, e soprattutto chi li decide?
Sarebbe fin troppo facile ironizzare sui vertici della nostra classe dirigente, che pretende il merito tra i lavoratori, e chiedere loro quali siano i meriti delle escort diventate ministri, parlamentari, assessori ecc o degli inquisiti che siedono senza vergogna in parlamento o a capo di dicasteri, magari creati ad hoc nel tentativo di sottrarli alla giustizia.
Anche in altri campi tali esempi non mancano. I grandi esperti di finanza strapagati che mandano a catafascio l’economia del mondo intero, i grandi dirigenti di compagnie pubbliche che accumulano passivi milionari ( in euro) e vengono licenziati con buonuscita da nababbi, i vari Tanzi , Cirio e compagnia brutta che riducono sul lastrico migliaia di famiglie e l’elenco potrebbe continuare a lungo.
Ma naturalmente la meritocrazia si auspica solo in basso, solo i lavoratori vanno giudicati .con il bilancino ed il loro comportamento passato al vaglio.
I padroni delle ferriere restano tali quali che siano le loro capacità od il loro impegno, ed i loro figli ereditano un posto nell’olimpo per diritto di nascita.
La concezione meritocratica parte dalla concezione che il pianeta è un campo di battaglia dove si combatte per impadronirsi delle risorse e più bravo uno riesce ad essere più risorse riesce ad accaparrarsi.
Affermare il principio della meritocrazia, quindi, serve anche a dare giustificazione al fatto che una parte della popolazione mondiale non possiede nulla, neanche l’indispensabile per vivere, ed altri hanno risorse pari a quelle di più stati africani messi insieme.
Poco importa poi se questa concezione ha come risultato finale la distruzione sistematica delle risorse naturali
Il fatto è che l’egualitarismo è figlio di una visione del mondo che auspica una distribuzione ugualitaria delle risorse del pianeta tra tutti i suoi abitanti, non solo presenti ma anche futuri e di conseguenza ne richiede anche un uso oculato. Purtroppo questa concezione del mondo è stata sconfitta culturalmente prima ancora che politicamente.
Anche io pensavo che l’uguaglianza non danneggiasse i migliori. Ma certamente sbagliavamo quando respingevamo la professionalità e vedevamo in essa un puro espediente padronale per introdurre controlli gerarchici sulla manodopera. Facevamo male a non incoraggiare nei giovani la ricerca di una migliore professionalità e di una più libera mobilità professionale.A diversa professionalità deve corrispondere secondo me una diversa retribuzione. Le distanze devono essere contrattate e ragionevoli. Con la scusa della demolizione dell’egualitarismo, oggi si considera naturale che Marchionne guadagni quanto 435 operai. Varrebbe la pena proseguire la discussione, ringraziando Vincenzo per averla aperta con l’opportuna serenità. Mario Dellacqua