I DUE DOCUMENTI CONGRESSUALI di Vittorio Rieser – sindacato & democrazia – 4-1-2100

Vittorio Rieser, studioso del Movimento Operaio, esponente di spicco del Movimento Studentesco e della contestazione degli anni 60-70, oggi ricercatore dell’Ires Cgil, ha scritto un primo commento sui due documenti redatti dai leaders dei due schieramenti che si confronteranno al Congresso della Cgil, in primavera. Vittorio premette di aver scritto un commento “….noioso su due documenti noiosi “ e cita un antico dilemma-paradosso sofista “se io dico le stesse cose che dici tu, come fai tu a non dire le stesse cose che dico io?”.

 Avverte di aver letto il Confronto testuale per argomenti tra i due documenti (con commento), quando aveva praticamente concluso il suo commento che si suddivide in quattro capitoli ed una postilla finale. Riportiamo in ampia sintesi il testo che troverete in allegato nell’edizione integrale.

 Un primo sguadro. Nel primo capitolo,Rieser scrive che “Una prima impressione è che i due documenti siano molto simili per quanto riguarda gli obiettivi della Cgil…simili a quelli proposti negli ultimi anni…e mancano totalmente indicazioni su cosa bisogna fare per raggiungerli. Per questo da ragione a chi ( come Fulvio Perini) sostiene che ambedue i documenti sono “massimalisti”: intendendo come “massimalismo” la sproporzione tra gli obiettivi che vengono proposti e i mezzi e le forze necessarie per il loro raggiungimento…. Alla base di questo apparente paradosso, per cui le due posizioni propongono le stesse cose ma una spara addosso all’altra, c’è un difetto costante che si riproduce nei congressi: la mancanza di quella che – in termini aziendali – si chiama la funzione di programmazione/controllo: cioè, una organizzazione si pone determinati obiettivi con determinate scadenze, e – alla scadenza definita – valuta se e quanto sono stati raggiunti, quali sono le cause (interne ed esterne) del loro eventuale mancato raggiungimento, e ne trae le conseguenze, in termini di possibile correzione di linea o di ridefinizione degli obiettivi stessi. Questa dovrebbe essere una prassi costante, e i congressi dovrebbero costituirne, per così dire, il culmine e la “sintesi”: invece, di congresso in congresso, la Cgil ripropone gli stessi obiettivi o ne propone di nuovi e diversi, senza mai fare un adeguato “bilancio dell’esperienza” di ciò che si è fatto (o non fatto) tra un congresso e l’altro.

 

Il secondo capitolo si sofferma sugli obiettivi e le strategie per realizzarli. L’analisi della crisi e delle sue radici strutturali e politiche è molto simile nei due documenti. Sull’Europa, vi è una comune critica alle insufficienze della politica economica e sociale europea. Il documento 1 (quello presentato dalla maggioranza della segreteria) auspica una rapida approvazione del trattato di Lisbona. Il documento 2 ( quello di Moccia, Rocchi, Rinaldini & C.) contiene una giusta critica alla debolezza dell’intervento della CES, e indica la necessità di costruire rapidamente un vero sindacato europeo; inoltre “butta lì” l’indicazione di una vertenza europea per la riduzione generalizzata dell’orario, senza approfondirne le ragioni e il grado di realizzabilità.

Sulmodello di società, ambedue i documenti appuntano la critica sulle crescenti disuguaglianze, sull’erosione del Welfare universale, ed usano ambedue come concetto-chiave quello della “coesione sociale”, terminologia anche utilizzata dal Governo, dalla Confindustria, dalla Cisl e dalla Uil. Sono comuni ai due documenti i grandi obiettivi del sindacato quali:

una forte redistribuzione del reddito a favore del lavoro dipendente, partendo dal ricupero delle quote di reddito che si sono spostate dai salari verso i profitti e le rendite;

la difesa e sviluppo del Welfare State, adeguandolo ai nuovi problemi creati dalla nuova composizione della società (es. per età, per nazionalità), mantenendone i caratteri universalistici;

una politica fiscale che combatta l’evasione e che riequilibri la pressione fiscale, a favore

dei salari e a danno delle rendite;

una ri-regolamentazione del mercato del lavoro, che restituisca al rapporto a tempo indeterminato il suo ruolo normativo centrale, stabilendo regole e vincoli per i rapporti “atipici”.

Più vaghi e insufficienti sono i riferimenti all’intervento pubblico in economia.

Analogamente comuni sono gli obiettivi relativi al sistema contrattuale e alle relazioni industriali:

democrazia sindacale: definizione di regole della rappresentanza, generalizzazione delle rappresentanze elettive, validazione attraverso il voto di tutti i lavoratori di piattaforme e accordi;

difesa del ruolo-chiave del contratto nazionale di categoria;

difesa e sviluppo della contrattazione articolata, non solo aziendale, ma di sito e di filiera, e anche “orizzontale”, cioè contrattazione sociale/territoriale.

A partire da questo, si fonda il rifiuto dell’accordo separato firmato da Cisl e Uil con imprenditori e governo – e il rifiuto correlato del ruolo “nuovo” da esso delineato per il sindacato, in particolare del carattere e delle funzioni previste per gli Enti Bilaterali (di cui invece si riafferma la natura delimitata e rigorosamente contrattuale).

Dunque obiettivi largamente comuni ma  nessuno dei due indica le strategie concrete da sviluppare per realizzarli in condizioni di:

crisi economica che indebolisce “strutturalmente” i lavoratori;

governo nemico, nel senso più netto del termine (cioè meno disposto a mediazioni di quanto lo fossero ad es. i vecchi governi democristiani), e con le forze politiche tradizionalmente alleate della CGIL che oggi o hanno una posizione ambigua o sono drasticamente indebolite;

profonda divisione sindacale.

A questo non ci sono risposte. Né si risponde a una “domanda preliminare”, e cioè: come mai nessuno di questi obiettivi (che non sono emersi improvvisamente oggi) si è realizzato nella fase precedente, cioè in condizioni di:

sviluppo occupazionale (non era ancora esplosa la crisi)

rapporti con CISL e UIL che, pur presentando già allora elementi di divisione, non erano

così compromessi come adesso

un periodo, pur breve, di governo relativamente “amico”.

 

Il terzo capitolo si sofferma sulle questioni interne di organizzazione. Nel documento 1 non c’è quasi traccia di autocritica. Il documento 2, invece, realizza uno straordinario tour de force: fare l’autocritica senza fare il bilancio dell’esperienza del recente passato. Così che l’autocritica non è in realtà un’autocritica, ma sembra fatta da qualcuno che con la CGIL di questi anni non c’entrava niente.

Tutti e due i documenti enunciano generici criteri di innovazione organizzativa: rinnovamento, democratizzazione, sburocratizzazione, largo ai giovani, ed altro. Concordano sulla proposta di accorpamento di categorie, a partire da quelle dell’industria. Il discorso sull’accorpamento andrebbe approfondito criticamente, vedendo anche “l’itinerario storico” che questa tendenza ha avuto, iniziata alla fine degli anni ’70 nella logica del “nuovo modello di sviluppo”.

 

La struttura delle categorie andrebbe dunque ripensata, non in una pura e meccanica “logica di accorpamento”, ma in relazione ai mutamenti nella struttura produttiva e occupazionale sviluppatisi negli ultimi decenni. Una riflessione del genere non sembra presente in nessuno dei due documenti.

Se mai, il documento 2 sembra adombrare una struttura accorpata in tre grandi categorie, che – guarda caso – coincidono con i “capifila” firmatari del documento: metalmeccanici (per l’industria), funzione pubblica, e – per il terziario privato – bancari; e questo può indirettamente indicare un ridimensionamento della funzione confederale a favore dell’autonomia delle categorie (in un’ottica tradizionalmente rappresentata dalla CISL). Il documento 2 però, al di là di questo, è ricco di altre proposte innovative sul terreno dell’organizzazione interna della CGIL. Alcune di queste sono general/generiche: il rafforzamento delle regole di incompatibilità, e la proposta (non chiara, e politicamente ambigua) di eventuale “ricorso alle primarie” (per che cosa? a quale scopo?).

 

Vi è poi la proposta di “quote verdi”, cioè di quote riservate ai giovani negli organi dirigenti: Essa ricalca l’esperienza delle “quote rosa” riservate alle donne; ma c’è una differenza: le quote rosa servirono ad aprire spazi dirigenti per le donne, che erano presenti in gran numero nel sindacato, e con questo spesso si migliorò la qualità dei gruppi dirigenti. Ma, nel caso dei giovani, il problema “sta a monte”: se i giovani non ci sono, o sono molto pochi, a cosa serve riservargli delle quote?

Vi è poi una critica, non priva di fondamento, alla logica che ha portato alla creazione del NIDIL:

infatti c’è un nodo tuttora non ben risolto, tra la logica vertenziale-individuale specifica degli “atipici” (al di là delle loro appartenenze di categoria) e l’esigenza di unificare i lavoratori che lavorano in una medesima azienda o settore.

 

Ma la proposta più “innovativa” riguarda lo SPI: si propone una tendenza che porti a raggruppare i pensionati nelle categorie a cui appartenevano quando lavoravano. Ora, anzitutto è curioso che questa proposta avvenga proprio quando i “futuri pensionati” saranno caratterizzati da itinerari lavorativi estremamente eterogenei. In passato, c’era chi nasceva e moriva metalmeccanico. In futuro, come si farà ad applicare la proposta del documento 2? si “lottizzerà” ogni pensionato,

dandone il 30% al commercio, il 30% alla funzione pubblica, il 20% ai metalmeccanici e così via?

Ma il problema di fondo è un altro. Oggi, lo SPI è l’unica categoria (e questo è un limite pesante della CGIL) che sviluppi una vertenzialità confederale articolata, su temi come la sanità, i servizi pubblici, ecc.; anche perchè è rimasta l’unica categoria, anzi l’unica struttura CGIL, con una presenza capillare ed articolata sul territorio. Smantellare o depotenziare questa struttura significa quindi indebolire la, già insufficiente, capacità della CGIL di sviluppare quella contrattazione sociale territoriale a cui, giustamente, ambedue i documenti assegnano un’importanza cruciale.

Sembra quindi evidente che la proposta di “depotenziamento” dello SPI rientri, non in una logica di politica contrattuale, ma di diversa distribuzione di poteri e risorse all’interno della CGIL.

 

Nel quarto capitolo Rieser avanza qualche considerazione conclusiva ribadendo la sua idea fissa dell’assenza ( in Cgil) di un’adeguata funzione di “programmazione-controllo” dell’organizzazione. Non c’è nessun congresso che parta dagli obiettivi indicati nel congresso precedente, per fare un bilancio della loro realizzazione e procedere, a partire da questo, alla definizione dei nuovi obiettivi.

(Tipica, a questo proposito, è la storia della “codeterminazione”: strategia impegnativa proposta, in un precedente congresso, dall’alleanza tra Trentin e Sabattini. Nel congresso seguente non se ne parlò più, come se niente fosse. Oggi, il documento 1 non ne fa parola; il documento 2 la ripropone vagamente, nella “versione letterale tedesca”, in termini puramente “istituzionali”, lasciando per strada l’elaborazione, assai più ricca di analisi di classe e contrattuale, condotta a suo tempo sotto l’impulso di Sabattini). Quindi prosegue con una serie di “si sarebbe potuto/dovuto” raggruppati in tre sottopunti: a),b),c) dei quali consigliamo un’attenta lettura e riflessione.

 

Si sofferma a lungo sull’unità della CGIL.  Per Rieser è una questione di fondo, che in tutti questi anni ha rischiato di venire sottovalutata (per malintesi “superamenti del centralismo democratico” ma anche, soprattutto, per un allontanamento della dialettica interna dal terreno della lotta di classe reale): è invece un’esigenza vitale per un “sindacato di combattimento”. Di fronte a uno sciopero, è indispensabile superare divergenze su piattaforme, tattiche di lotta, ecc., affinchè lo sciopero riesca. Oggi siamo in una situazione in cui, sull’arena “istituzionale” dei rapporti sindacali, la CGIL è isolata: perchè questo isolamento venga superato, costruendo una propria capacità unitaria a livello di massa, l’unità della CGIL è condizione indispensabile, anche se non sufficiente; essa va misurata non in riferimento alle diatribe interne, ma in riferimento all’esigenza di unità che i lavoratori hanno sempre nella loro lotta: unità tra i sindacati, se possibile, ma almeno unità del sindacato che si propone come soggetto di un processo unitario tra i lavoratori. (Il primo indizio di burocratizzazione e distacco dai lavoratori, in un’organizzazione del movimento operaio, è quando si costruiscono e si sviluppano le differenze politiche prescindendo dall’effetto che queste hanno sul rapporto con i lavoratori, ma misurandole solo in funzione dei rapporti interni).

 

Il punto quarto si conclude con il sottopunto “Rifondazione e il congresso della CGIL” da non perdere nella lettura. La postilla finale è stata aggiunta perché è sopraggiunto, a documento concluso, l’accordo contrattuale dei chimici, che Rieser consideraun accordo pessimo elencando le principali negatività.

 

In allegato il testo integrale di Vittorio Rieser

Allegato:
congresso CGIL.doc

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